Tecnologia e sanità. Le rivoluzioni del futuro

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Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione stanno trasformando ogni aspetto della vita quotidiana perfino il modo in cui ci prendiamo cura di noi stessi e dei nostri cari. Lo abbiamo sperimentato, in questo periodo di pandemia, con l’affermarsi della telemedicina e della ricetta medica elettronica. Ma le applicazioni digitali sono infinite e in futuro non potranno che migliorare il rapporto tra medico e paziente, rendendolo più paritario, e potranno rafforzare quella medicina del territorio tanto invocata in questo momento emergenziale come argine al sovraccarico degli ospedali che le cronache ci hanno raccontato negli ultimi due mesi.

A questo tema, cruciale per il nostro sistema sanitario, è dedicato un libro che LiberEtà darà alle stampe tra poche settimane dall’eloquente titolo Sanità 2.0. Internet, telemedicina e intelligenza artificiale, che uscirà per la collana Riace dell’Alta scuola Spi Cgil Luciano Lama.

Anche la governance delle strutture ospedaliere è messa alla prova dalle tecnologie. Nuove frontiere come la telemedicina, l’intelligenza artificiale, il Fascicolo sanitario elettronico e i robot infermieri impongono un salto culturale e di mentalità a tutti: malati, medici, operatori e decisori politici.

Le applicazioni digitali in campo sanitario sono molte e potrebbero facilitare l’accesso a cure di alta qualità anche a distanza. Ma per tutti i cittadini? La tendenza a privatizzare la sanità è globale un fenomeno diffuso, così come l’analfabetismo digitale. Eppure le nuove tecnologie, se ben governate, possono essere l’occasione per riorganizzare la medicina di territorio e il sistema socio-sanitario pubblico e universalistico, rendendoli efficienti e inclusivi.

Nel volume, che è tratto dal rapporto di ricerca Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Opportunità e sfide per la salute e la sanità di Giovanna Vicarelli, Università Politecnica delle Marche, si cerca di comprendere come la tecnologia potrebbe aiutarci ad avere una medicina di territorio e un sistema sanitario pubblico al servizio dei cittadini.

Pubblichiamo qui la Prefazione del segretario generale dello Spi Cgil Ivan Pedretti e della segretaria Spi Cgil Antonella Pezzullo, responsabile delle politiche socio-sanitarie.


 

Il 2020 sarà ricordato come l’anno della pandemia da Covid-19.

Il 20 febbraio, quando un uomo di 38 anni è stato ricoverato in condizioni gravissime nel pronto soccorso dell’ospedale di Codogno, il Coronavirus è entrato nelle nostre vite: si trattava infatti del primo caso di Covid 19 diagnosticato in Italia.

Quel giorno ha rappresentato una cesura nel nostro tempo che ne ha interrotto la continuità, e ci ha confinati nel perimetro delle nostre abitazioni, separati improvvisamente dallo spazio fisico e relazionale che rappresentava la scena della nostra quotidianità.

Isolati, prigionieri, e obbligati ad una distanza fisica che ci preservasse dal contagio, abbiamo scoperto che l’unico mezzo che poteva mantenere ancora in vita un sistema di relazioni affettive, sociali e di lavoro erano gli strumenti digitali. Questi ci hanno consentito di continuare a coltivare affetti e contatti personali e collettivi, senza i quali il confinamento sarebbe stato forse socialmente insostenibile, e hanno contribuito ad assicurare una relativa continuità del lavoro e dei rapporti pubblici e privati, in un dialogo altrimenti impossibile.

Sono state, in altre parole, l’infrastruttura immateriale sulle quale si sono mosse le relazioni.

Gli strumenti digitali hanno permesso, ad esempio, di mantenere in piedi relazioni di cura traumaticamente interrotte dall’emergenza Covid 19, in tutte le forme possibili, rappresentando ancoraggi provvidenziali nel momento in cui una umanità entrata d’improvviso in un territorio pericoloso e in un inatteso confronto con la morte, esprimeva la massima domanda di salute, a fronte di un sistema sanitario disarticolato dall’epidemia e in caotica riorganizzazione.

Inoltre, e questo è forse l’aspetto oggi più evidente, gli strumenti digitali hanno conquistato il ruolo di protagonisti nella gestione della emergenza sanitaria, trovando un ruolo specifico in ogni scenario in cui essa si è dispiegata, dai reparti di terapia intensiva, alla raccolta frenetica e incessante di dati necessari a costruire il profilo epidemiologico del “mostro”, al colloquio collaborativo della comunità scientifica, fino alla creazione di un sistema di tracciamento del contagio, una App, che fungesse da ausilio nel periodo indeterminato di scomoda convivenza con il virus.

L’emergenza ha funzionato dunque da grande spinta evolutiva in una vera esplosione di connessioni digitali in tutti gli ambiti della vita, pubblici e privati, tanto che, come ha detto Roberto Ascione, leader globale nel campo della salute digitale, “..in Italia stiamo sperimentando 10 anni di evoluzione della salute digitale in 10 giorni”

In altre parole, la digital health, che in Italia fino ad oggi ha avuto qualche difficoltà ad imporsi, ha debuttato massivamente sulla scena pubblica in un momento drammatico quale la pandemia, ed è ragionevole pensare che questo sia un punto di arrivo irreversibile, probabilmente determinante nel cambiare il profilo di tutto quanto concorre a costruire quel sistema complesso che è l’universo salute nel nostro paese. Sorprende anche che lavoratori e cittadini, descritti sempre come riluttanti ad abbracciare in questo campo le nuove tecnologie, diversamente che in altri paesi, abbiano risposto in modo fiducioso e talvolta estremamente collaborativo.

Ci troviamo dunque al cospetto di un fenomeno oggi emergente, benché abbia già 20 anni di vita, che caratterizzerà a detta di molti il futuro dei sistemi sanitari in generale e in particolare nel nostro paese.

Non è un evento banale, né può coglierci come spettatori e fruitori passivi, perché si tratta di una trasformazione che attraversa i temi più importanti della modernità, siano essi antropologici, culturali, economici, etici.

Né possiamo oscillare tra due posizioni contrapposte e inconciliabili, incapaci di cogliere entrambe gli infiniti aspetti del fenomeno, tra chi si affida a tali processi con atteggiamento fideistico, e chi al contrario teme che la loro pervasività, irreversibilità e rapidità pongano un problema ontologico di de-umanizzazione.

È un luogo comune, forse retorico, affermare che dopo la pandemia, nulla sarà come prima. D’altra parte la Storia ci insegna che le grandi epidemie hanno sempre cambiato il corso degli eventi mutandone la traiettoria. È probabile che ciò avvenga anche in questa occasione.

In scala più ridotta, e guardando a quella parte di realtà della quale intendiamo occuparci, vale a dire il tema della salute e della sanità del nostro paese, appare evidente che Covid19 ha investito e disarticolato il nostro Sistema Sanitario mettendone a nudo tutte le fragilità e le inadeguatezze.

È emerso con evidenza, ad esempio, che esso necessita oggi, per rispondere alle esigenze di intervento di una epidemia non ancora estinta, e in futuro, per essere aderente ai nuovi bisogni di salute di una società che invecchia, di un sistema di cure territoriali ben organizzato che riconosca nella domiciliarità il cuore qualificato del suo intervento. La telemedicina, ad esempio, la più conosciuta fra le applicazioni telematiche alla medicina, già oggi consente un’ampia gamma di pratiche diagnostiche e terapeutiche a distanza, senza che la persona si sposti dal suo domicilio.

Quindi la digital health, intesa quale incontro fra molteplici tecnologie digitali, stili di vita e assistenza sanitaria, può rappresentare un ausilio utilissimo per migliorare un sistema di cure che faccia della personalizzazione e della continuità i suoi punti qualificanti.

Siamo consapevoli che la sanità digitale susciti domande e perplessità intorno alla sua capacità di migliorare la vita delle persone, al rischio di de-personalizzazione e di interferenza nel rapporto medico paziente, al rispetto della privacy, alla difficoltà di accesso ai suoi apparati concettuali e tecnici.

Oggi, negli ambienti scientifici più evoluti e nella progettazione di start up innovative, si comincia a parlare di umanesimo digitale e umanesimo dei dati, di centralità della persona, di tecnologie che liberano il tempo di cura, di paradigma bio-psico-sociale.

È per questo che l’evolversi e il diffondersi di strumenti e modalità che rappresentano un vero ecosistema, e la mutazione profonda che lo accompagnerà, hanno bisogno della conoscenza e della partecipazione di cittadini consapevoli, oltre che del governo degli attori politici, economici e sociali.

Un’organizzazione come lo Spi Cgil, che dà voce e protagonismo sociale ad una generazione che interroga inevitabilmente il futuro, ha accolto la sfida di una modernità che sia indirizzata all’umanizzazione dei percorsi di cura, alla democratizzazione delle nuove tecnologie, alla co-progettazione della risposta ai nuovi bisogni.