Letture di primavera in regalo. L’azzurro rubato. L’ultima puntata

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Foto di Ruvim da Pexels

LiberEtà omaggia i propri lettori pubblicando sul sito il libro di Domenico Aleotti, terzo classificato del Premio letterario di LiberEtà 2020, in sei puntate. Ogni mercoledì vi abbiamo portato in una Maremma incantata tra ex minatori partigiani e fotografi di moda. Un mondo fatto di duro lavoro, saperi preziosi, lotte e conquiste. Storie di piccoli e grandi amori, amicizie, avventure e passioni politiche. Un viaggio pieno di emozioni.
Quella che pubblichiamo qui è l’ultima puntata. 



(…)

Fabrizio vedeva che Florence era molto interessata al racconto di Selene. Approfittando di una pausa della padrona di casa, spense la macchina da presa e rivolgendosi alla giornalista disse: «Che ne diresti di coinvolgere una rivista importante solo per Selene?». Il dialogo tra loro si svolse in inglese, poi Fabrizio, per correttezza, tradusse a Selene: «Ho detto a Florence cosa ne pensa di puntare su di te, anche per parlare della fine della transumanza, che in Italia mobilitava centinaia di migliaia di capi di bestiame in tutto l’Appennino fino alle Calabrie». Selene non parve entusiasta della proposta e, accarezzando Buk, che era sdraiato ai suoi piedi, disse: «Non dimentichiamo mai che siamo qui per ricordare Baldo, e io parlo per raccontare la fortuna che ho avuto di passare una vita con un uomo così».

Florence era sempre più entusiasta di una donna così vera, semplice e profonda. Quasi a voler scusare Fabrizio disse: «Noi intendevamo capire come sviluppare al meglio il racconto di voi tutti, ci interessa la coralità del progetto, che poi coinvolgerà altri pensionati minatori». «Lo so, lo so», disse Selene, «ma per Baldo questo interesse è fondamentale, noi così lo riportiamo alla luce, lui che ha vissuto tanti anni nel buio. Ora possiamo continuare? Vi devo dire come andò quando, dopo la guerra, ci incontrammo nella sala da ballo». «Benissimo! Certamente – disse Fabrizio – ripartiamo dal ballo».

Selene, rinfrancata, riprese a raccontare. «Come potete immaginare, c’era una gran voglia di divertirsi, di incontrarsi dopo i terribili anni della guerra, delle stragi avvenute in Toscana. Ci si rivedeva dopo anni, si chiedeva di tizio e di caio, si scopriva chi mancava, chi era ancora prigioniero in India, in Australia, in Russia. I nostri sorrisi erano pieni di lacrime. Si ballava per stare uniti, per scoprirci fratelli».

«Com’era questa sala dove ballavate?», chiese Fabrizio. «Mi pareva fosse un cinema, perché in una parte erano accostate molte sedie, nei muri c’erano manifesti. Ricordo quello di Via col vento e Roma città aperta, e poi Charlot. Intorno alla sala c’erano delle sedie dove stavano sedute le mamme e le nonne e le giovani ragazze; gli uomini invece erano tutti in piedi, fumavano e una nube bianca si alzava verso il soffitto. Quella sera indossavo un vestito che mia madre metteva quando era ragazza, arrivava appena sopra le ginocchia, noi pastori eravamo gente aperta, a volte anche un po’ selvatica. Avevo fatto la permanente e mia madre mi aveva arricciato i capelli con il ferro scaldato. Per la prima volta nella mia vita misi un leggero rossetto alle labbra. Mi sentivo intimidita, era la prima sera in una sala da ballo in mezzo a tanta gente. Poi l’orchestrina attaccò a suonare una canzone bellissima, mi pare si chiamasse Amapola. Baldo e i suoi amici cominciarono a girare per la sala cercando di scegliere le compagne per la danza. Io tremavo, speravo venisse da me, ma passò e non mi chiese nulla, fece alcuni passi e poi come avesse avuto un ripensamento tornò davanti a me e mia madre. La salutò e poi, rivolto a me, disse: «Mi pare ci siamo già visti, sei la ragazza che mi ha dato una volta una pagnotta?». Ero diventata un fuoco. Quella voce, quegli occhi mi bloccavano, mi schiarii la gola e con un filo di voce risposi: «Sì, sono Selene, la figlia del capo pastore che ti regalò le formaggette». Baldo allora si aprì in un sorriso bellissimo e rivolto a mia madre chiese: «Signora, permette che chieda a sua figlia se vuole fare un ballo con me?». Mi alzai e incominciammo a ballare, era la prima volta che ballavo con un uomo. Su in montagna lo facevo con mia madre o con le mie amiche. Mi sembrava di essere accompagnata da un angelo. Non dimenticherò mai quella serata, quella musica. Quando mi capita di risentire quella canzone alla radio o in televisione, scoppio a piangere. Con quel ballo nacque una storia che durò un’intera vita».

Fabrizio sfiorò con dolcezza la mano di Selene per comunicarle la sua gratitudine per aver raccontato la sua storia. Quelle di Selene erano parole che con semplicità raccontavano non solo la loro storia ma anche quella di tanti sconosciuti che con umiltà e costanza avevano contribuito a riparare il tessuto lacerato del nostro Paese. Fu allora che Fabrizio si rese conto dell’importanza del lavoro che stava facendo. Si rese conto dell’importanza di raccontare il vero volto della nuova Italia che fu.

«Ma quando conoscesti Baldo, lui era già al lavoro in miniera?», chiese. «Era in lista d’attesa – rispose Selene – però, nonostante molti della sua famiglia fossero già al lavoro, per lui sembrava ci fosse un ostacolo». «Perché?», chiese incuriosita Florence. «Era comunista. Peggio, era stato anche partigiano», spiegò Selene.

«Ma come? E perché doveva essere un problema?» – disse Fabrizio – La Repubblica non era stata dichiarata figlia della Resistenza?». «Sì, tutte belle cose, ma in miniera erano tornati i capi, i direttori di prima, forse avrebbero sopportato un operaio comunista, ma se fosse stato anche partigiano la strada pigliava la salita», continuò Selene. «Baldo però tenne duro e fu anche aiutato dai suoi compagni che fecero anche un sciopero contro l’assurda ostilità che la direzione mostrava nei suoi confronti. Finalmente poi i capi lo chiamarono. Baldo era un torello e lo misero nelle prime squadre, quelle che aprivano nel profondo della terra nuove strade. Nella squadra del primo ingresso c’erano altri due operai: con lui crearono un trio fortissimo. Uno è morto distrutto dalla silicosi, è seppellito vicino a Baldo e io voglio bene a tutti e due, curo sempre il loro infinito viaggio tenendo in ordine le tombe. L’altro invece è Ernesto, un gigante dal cuore grande, è l’anima del circolo anziani. Non c’è giorno o iniziativa in cui non parli di mio marito. Lo considerava più di un compagno, un vero fratello. Cercatelo, dovete parlarci!».

Le giornate trascorrevano, i nastri si riempivano di immagini e di emozioni. Un giorno Fabrizio, Florence e l’inseparabile Buk salirono al cimitero accanto a Selene. Le tombe dei minatori erano tante. In una giornata di tramontana, insieme erano tornati al sasso dove era morto Baldo. Il vento aveva spazzato il cielo aprendo allo sguardo il mare e, in fondo, le isole, galleggianti nell’azzurro: il Giglio, Montecristo, la Corsica lontana, uno spicchio dell’Elba. Un mondo di bellezza che rendeva ogni secondo prezioso, una bellezza che aveva alimentato le tante passeggiate serali di Baldo. La bellezza di pochi secondi illuminati contro il buio e la luce malsana dei decenni passati in miniera.

Fabrizio, così pure Florence, sentiva il peso di una forte consegna. Il suo compito era riuscire a trasformare la poesia, la verità, la costanza di quelle vite scoperte e amate, in un racconto, in una saga corale di popolo in un mondo smaliziato e viziato da nuovi cinismi.

La partenza fu dolorosa per Fabrizio e Florence e anche per Selene. Al mattino presto in casa fecero la colazione del pastore: pane raffermo riscaldato, olio di oliva, ricotta, una fetta di pecorino stagionato, cantuccini fatti in casa e un bicchiere di vinello dei colli vicini. Poi cominciarono gli abbracci e i pianti. Fabrizio piangeva e beveva, alla fine Selene si alzò: «È ora di andare, ché piangere fa solo bene al Re, cantava mio nonno».

Buk visse a lungo, così Selene, che nell’azzurro degli occhi intelligenti del cane riviveva la luce del suo perduto uomo. Sempre insieme, poi la sera Selene apriva la porta di casa e rivolta al cane gli diceva: «Buk, non far danni, torna presto». Il cane correva fino alla roccia dove era morto Baldo, si accucciava e con il suo sguardo azzurro osservava morire il sole, lontano, dove intuiva il mare e la terra dove era nato.

 



Nota dell’autore

Questo racconto è dedicato alla memoria del poeta parmense Attilio Bertolucci che, assieme alla sua dolce compagna Ninetta, camminò con me nelle stradine di Roccastrada e di Roccatederighi nell’estate del 1988 alla ricerca delle tracce dei suoi antichi avi, pastori di Maremma, trasferitisi secoli fa nelle verdi montagne dell’Appenino parmense. Dall’umiltà del loro sguardo attento ho imparato tanto.

Nel racconto sono citate le miniere statunitensi dei monti Appalachi che vanno sotto il nome di Coal Region, un’area storicamente importante della Pennsylvania nordorientale. Negli Appalachi si scavava soprattutto carbone. Le miniere chiusero definitivamente negli anni Cinquanta creando grande disoccupazione nella zona. Nelle miniere di Baldo e dei suoi amici minatori, invece, molti dei quali morti di silicosi e ora sepolti nei piccoli cimiteri dell’Alta Maremma, non si scavava solo carbone. Ma anche qui, dopo la fine della seconda guerra mondiale, partì un piano di liquidazioni e la stagione delle miniere si avviò al tramonto. Molti operai tornarono alla terra, altri alle fonderie di Piombino.

Intere generazioni provenienti dai paesi collinari di quella zona si sono succedute nel duro lavoro nel ventre della terra. Nel racconto si citano paesi come Ribolla, che il 4 maggio del 1954 fu luogo di una disastrosa tragedia che causò la terribile morte di quarantatré minatori soffocati dal gas e dalle fiamme. Ma c’è anche la miniera di Niccioleta che fu invece teatro di un rastrellamento nazi-fascista nel 1944.

Il racconto vuole esaltare e ricordare chi fu un frammento prezioso di “popolo”. Il popolo di Baldo, il popolo dei minatori. «Chi è Baldo?», chiede a un certo punto il minatore Ernesto, amico del protagonista. «Noi siamo Baldo!», rispondono in coro gli altri minatori del centro anziani. Ecco, questo è il popolo di cui volevo parlare nel libro. Il popolo è una preziosa catena di sentimenti che sopravvive alle delusioni e anche al diffuso cinismo del nostro tempo.

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La storia
Un grande fotografo di moda decide di realizzare un servizio fotografico sulle colline della Maremma. Ma mentre cerca di catturare gli sguardi più espressivi di ragazze e ragazzi bellissimi, viene colpito dagli occhi azzurri di un vecchio della zona, un minatore che ha passato gran parte della sua vita lavorando sotto terra e che ha combattuto durante la Resistenza. Aleotti ci racconta un mondo perduto fatto di duro lavoro, saperi preziosi, lotte e conquiste.Un viaggio nel passato denso e pieno di emozioni.

L’autore
Nato a Genova nel 1942. Ha lavorato per una vita come sceneggiatore cinematografico anche per la grande casa di produzione Gaumont guidata Renzo Rossellini e per importanti registi di fama internazionale. Con Rossellini ha partecipato alla fondazione di Radio Città Futura negli anni Settanta. Ha lavorato con Franca Rame e Dario Fo. Da trentacinque anni vive in Maremma. Da sempre motociclista, oggi gira in Vespa. Ha una biblioteca di più di ottomila volumi. È iscritto allo Spi Cgil, scrive racconti e collabora con Il Tirreno.

 


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