Un diritto di voto piccolo piccolo

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Il 30 giugno del 1912, su impulso del governo di Giovanni Giolitti, veniva approvata dal Parlamento la riforma che allargava la platea degli elettori. L’accesso alle urne era esteso a tutti gli uomini sopra ventuno anni, ma ancora una volta restavano escluse le donne.

Per molto tempo si è letto – perfino sui manuali scolastici – che il suffragio universale fu introdotto in Italia nel 1912. Suffragio universale tout court e non “universale maschile”, come è stato in seguito corretto: un quasi-ossimoro per delimitare il campo d’applicazione e ricordare che la riforma elettorale varata centodieci anni fa continuò a escludere dal voto le donne. La legge n. 666 del 30 giugno 1912 rappresentò comunque un significativo passo in avanti nella lunga e accidentata strada verso il pieno riconoscimento del diritto di voto senza discriminazioni di genere o di censo.

L’accesso alle urne venne esteso a tutti gli uomini da ventuno anni in su, in regola con gli obblighi di leva e alfabetizzati (per gli analfabeti la soglia di età era innalzata a trent’anni). Grazie a questa riforma, gli aventi diritto balzarono a 8.672.249. Un bel salto rispetto agli appena 418.696 che il 27 gennaio 1861 furono chiamati a eleggere il primo Parlamento italiano.

La facoltà di scegliere i propri rappresentanti era allora riservata a quanti avevano compiuto venticinque anni, dimostravano di saper leggere e scrivere e pagavano almeno quaranta lire di imposte dirette all’anno. In questo modo veniva penalizzato particolarmente il Mezzogiorno dov’era meno diffuso il benessere e più alto il tasso di analfabetismo. Nonostante ciò, Cavour aveva fatto in modo di ridurre il più possibile il numero dei collegi meridionali, dove sarebbero stati presumibilmente eletti molti oppositori del suo governo.

Il metodo del compromesso. Veniva inaugurato un metodo che avrebbe sempre ispirato le varie riforme elettorali e che ancora oggi sembra condizionare il confronto tra i partiti: correttivi e modifiche vengono studiati in funzione di un determinato equilibrio politico da mantenere o da costruire.

E questo porta molto spesso a concepire sistemi elettorali “misti” e piuttosto arzigogolati. Anche la sinistra ci prova. Dopo Cavour anche la Sinistra storica varò, nel 1882, una riforma, finalizzata questa volta a contenere il potere di controllo dei moderati sui 508 collegi uninominali, soprattutto di molti piccoli centri, dove gli elettori erano poche centinaia.

Lo scrutinio. Fu introdotto lo scrutinio di lista con 135 nuovi collegi di varia estensione e venne garantita, attraverso un complesso meccanismo, anche una certa rappresentanza alle minoranze. La nuova legge abbassò inoltre il limite di età a ventuno anni e stabilì come requisito essenziale la capacità culturale e non il censo.

Per poter votare bisognava infatti superare una prova su materie del programma di seconda elementare (dalla prova erano esentati quanti possedevano un titolo di studio o ricoprivano determinate cariche e uffici) oppure, in mancanza di tale requisito, aver pagato annualmente imposte dirette per almeno 19,80 lire. Il corpo elettorale era adesso formato da 2.017.829 italiani, pari al 6,9 per cento della popolazione. Una percentuale irrisoria, ma che rese possibile per la prima volta una significativa partecipazione di settori di classe operaia alle elezioni dell’ottobre 1882.

Il trasformismo parlamentare. Sul lungo periodo quella riforma non dette i risultati sperati e, invece di favorire la formazione di schieramenti politici ben definiti, segnò l’inizio del trasformismo parlamentare. La reintroduzione, dieci anni dopo, del collegio uninominale coincise con l’involuzione del quadro politico che portò prima all’autoritarismo di Francesco Crispi e poi alle cannonate a Milano di Bava Beccaris.

La svolta liberal-democratica. Agli inizi del Novecento l’avvento al potere di Giovanni Giolitti segnò una svolta in senso liberal-democratico. Le istanze di riforma sociale e di partecipazione politica del movimento operaio organizzato trovavano finalmente un interlocutore attento e sensibile. L’ampliamento del suffragio elettorale divenne il passaggio ineludibile per realizzare il disegno giolittiano volto a inserire nello Stato le masse popolari fino ad allora escluse. Il 21 dicembre 1910 il governo Luzzatti presentò una proposta di legge che andava in questa direzione, ma con tali cautele e ambiguità da indurre Giolitti, in quel momento soltanto deputato, a rompere gli indugi.

Prima che la proposta fosse messa ai voti, lo statista piemontese, a sorpresa, chiese di parlare e nel silenzio assoluto dell’aula di Montecitorio pronunciò queste parole: «Una grande rivoluzione sociale è avvenuta in Italia, la quale produsse un grande progresso nelle condizioni economiche, intellettuali e morali delle classi popolari.

A questo progresso, secondo me, corrisponde il diritto a una più diretta partecipazione della vita pubblica del paese. Io credo che al giorno d’oggi sia indeclinabile un ampliamento del suffragio dopo venti anni dall’ultima legge elettorale».

La fine del governo Luzzatti. Queste affermazioni segnarono la fine del governo Luzzatti. Il 26 marzo 1911 Giolitti formò il suo quarto ministero che aveva ovviamente nel programma la riforma elettorale. Le vicende della guerra libica rallentarono l’iter parlamentare, ma a giugno del 1912 la riforma fu approvata. Oltre che per l’estensione del suffragio, la legge va ricordata anche per l’introduzione dell’indennità parlamentare.

Con il nobile obiettivo di permettere a tutti, anche ai meno abbienti, di fare politica fu decisa l’assegnazione di seimila lire all’anno a ogni deputato. I privilegi della cosiddetta “casta” non erano ancora all’orizzonte.