Sanità. Parole d’ordine: pubblico e territorio

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L’emergenza Covid-19 ha dimostrato la fragilità del nostro sistema sanitario, tutto incentrato sugli ospedali e molto poco sulla medicina di prossimità, sul territorio. Abbiamo parlato più volte sul nostro sito della necessità di ripensare il sistema nel suo complesso, rsa comprese.

Ora a fare luce su come cambiare le cose, e quali iniziative mettere concretamente in campo, arriva il sindacato dei pensionati della Cgil che in tutta Italia si sta mobilitando per trovare un dialogo con le Regioni con l’obiettivo di ripensare il sistema di assistenza sanitaria e sociale dei cittadini, anziani in primis. Siamo andati in due delle regioni più popolose d’Italia, Lazio e Lombardia, per capire cosa si sta muovendo.

L’esperienza drammatica vissuta dagli anziani nelle Rsa, nelle case di riposo e nelle case famiglia durante la pandemia, impone di ragionare stavolta in maniera più concreta che mai sul tema della domiciliarità e residenzialità degli anziani. Ma cosa vuol dire in pratica? Vuol dire rispondere al bisogno di dare alle persone anziane un’assistenza non solo fuori dalla propria abitazione ma anche dentro.
“Tanti anziani che finiscono nelle rsa non sono non autosufficienti ma spesso hanno bisogno di un’assistenza leggera. E allora perché non aiutarli in casa, in primo luogo?”, si chiede Alessandra Romano, segretaria generale del sindacato dei pensionati Cgil di Roma e Lazio. “Perché spostare fuori, in struttura, bisogni che possono essere soddisfatti potenziando i sistemi di prossimità? Bisogna sviluppare un’integrazione socio-sanitaria: le persone anziane hanno bisogno di servizi ad ampio spettro”, spiega Romano.

Che il sistema così com’è congegnato ora non funziona, lo dimostra chiaramente il caso Lombardia, dove l’ospedalizzazione di tutti i servizi di assistenza sanitaria ha determinato il collasso. “I medici di medicina generale non ci sono più. Tutto è stato ospedalizzato. Bisogna invece puntare sulla medicina di prossimità”, spiega Valerio Zanolla, segretario generale dello Spi Cgil della Lombardia.

Prima ancora dell’emergenza Covid, lo Spi della Lombardia aveva programmato delle giornate di mobilitazione proprio per sollecitare la Regione a intervenire concretamente per cambiare le cose. “Poi c’è stata l’emergenza, c’è stato il dramma del Covid-19 e tutto si è fermato. Ma ciò che è accaduto dimostra proprio che il sistema così com’è non può funzionare”, prosegue Zanolla. Ora la mobilitazione ha ripreso. “Chiediamo soluzioni concrete. Ma ci rivolgiamo a una regione sorda e cieca. Finge di non vedere le migliaia di morti. Oggi chiediamo di non morire e chiediamo di poterci curare”.
Domani, venerdì 19 giugno, è prevista la seconda giornata di mobilitazione, sempre davanti al Palazzo della Regione, come accaduto pochi giorni fa. “Non c’è solo il problema, enorme, delle rsa. Pochi giorni fa abbiamo manifestato per chiedere una riforma del sistema delle residenze sanitarie per anziani. Domani è la volta della medicina di territorio e la prossima settimana invece saremo in piazza per chiedere interventi sugli ospedali”. Le criticità, infatti, sono molte. Ma tutte riconducibili a un’unica matrice: il territorio non può essere svuotato. Bisogna potenziarlo. “Solo così possiamo stare davvero vicini alle persone, curarle nelle proprie case e non costringerle ad andare in ospedale anche per patologie blande”.
In Lombardia, e non solo, invece finora è accaduto il contrario: “Abbiamo ospedali specialistici, abbiamo medici specialisti, ma poi non abbiamo medici di medicina generale né ospedali in grado di far fronte alle esigenze più ordinarie”, prosegue Zanolla. “Servono guardie mediche, servono laureati in medicina generale, servono più risorse per il territorio. Quando un malato è cronico, non ha senso portarlo in ospedale. È come se per per andare a lavoro in mezzo al traffico in città si guidasse una Ferrari”, spiega eloquentemente Zanolla. Già, quanto costa un ricovero in ospedale per una patologia che magari può essere curata a casa o in un presidio sanitario territoriale diverso dall’ospedale? Quante risorse vengono sprecate e quante persone vengono lasciate sole visto che gli ospedali poi non possono farsi carico delle cure di tutti?

“Un presupposto fondamentale di questa strategia è l’adeguata adozione di politiche di prevenzione e anche di invecchiamento attivo, rivolte da un lato ad allontanare nel tempo la perdita della propria autonomia, e quindi il ricovero in ospedale, e dall’altro a ritardare ogni fenomeno di aggravamento di patologie croniche e invalidanti”, dice Alessandra Romano. Già, prevenzione, prima di ogni altra cosa. E domiciliarità.

Su questo fronte l’esperienza del Covid-19 ha insegnato molto. Ha messo in luce la necessità di predisporre servizi a domicilio per aiutare i più deboli. Ora bisogna far sì che interventi emergenziali diventino strutturali. E non si parla solo di assistenza sanitaria ma anche sociale. Facciamo un esempio pratico. La spesa a domicilio. Se sono un anziano con difficoltà motorie, ma non sono non autosufficiente, posso continuare a vivere nella mia casa, ma ho problemi a fare le scale e non ho l’ascensore, il sistema pubblico può offrirmi il servizio di consegna della spesa a domicilio. Idem per le analisi del sangue, pensando sempre a un tipo di assistenza leggera. “In questo caso la Asl dovrebbe mettere in campo un team di infermieri che vanno casa per casa a fare i prelievi alle persone anziane o con difficoltà”, spiega Romano. E ancora: pensiamo a un anziano con disagio psichico che non abbia risorse sufficienti per pagarsi una retta in una rsa. Ma di esempi se ne potrebbero fare ancora molti altri.

In questi anni il vuoto del pubblico è stato colmato in parte dal terzo settore, che ha svolto un ruolo fondamentale su molti fronti. Ma non basta. Per questo il sindacato vuole ripensare il sistema con cui si fanno invecchiare le persone. “E siamo convinti che se ne debba occupare il pubblico”, commenta Romano. “Sappiamo bene che solo con le risorse pubbliche le persone sono veramente libera di curarsi”, aggiunge Zanolla. “Va detto forte e chiaro: la libertà dipende dalla cosa pubblica non da un mondo privatizzato”. ‘Quando tutto sarà privato saremo privati di tutto’ recitava un cartello di pochi giorni fa davanti alla sede della Regione Lombardia. Una sintesi eloquente del pericolo che corriamo tutti se non si cambiano in fretta le cose.

Il progetto che sta prendendo forma nel Lazio lascia ben sperare. Una soluzione forse c’è. E il terreno delle rsa è quello che può mostrare chiaramente in che modo il sistema è riformabile. Lo Spi Cgil di Roma e Lazio, insieme ai sindacati dei pensionati di Cisl (Fnp) e Uil (Uilp) e anche insieme alla Cgil e al comparto dei lavoratori pubblici (Fp Cgil), sta lavorando a un ambizioso progetto di riforma del sistema delle residenze sanitarie assistenziali. La proposta dovrebbe essere discussa con la Regione nelle prossime settimane.
Tutto nasce dai comitati di partecipazione nelle rsa, organismi interni a cui partecipano i sindacati dei pensionati, i rappresentanti di familiari e lavoratori. “Tra i suoi compiti, i comitati devono vigilare sul buon funzionamento delle strutture. Noi abbiamo monitorato e vigilato e lanciato l’allarme non appena è esplosa l’emergenza Covid. E dopo questi tre mesi ci siamo resi conto che le criticità sono troppe e che bisogna ripensare tutto”.

Nasce così il progetto di trasformazione delle rsa da private a pubbliche. Come funziona? Le rsa private ovviamente restano private. Ma quelle nuove, secondo la proposta dei sindacati, dovranno avere un profilo pubblico. “Potenzialmente il numero di anziani che avrà bisogno da qui ai prossimi anni di assistenza aumenterà in modo esponenziale. Anche perché aumentano le cronicità. E quindi aumenterà il bisogno di strutture”, dice Romano. “Il pubblico in questo processo deve avere un ruolo fondamentale”. E se non ora quando? “In questa fase abbiamo a disposizione le risorse economiche messe in campo dai decreti dei governo e quelle che probabilmente arriveranno dal Mes. È un’occasione che non possiamo perdere”.

E cosa prevede invece il progetto per le residenze sanitarie private che già esistono? “Sicuramente bisogna cambiare il sistema di accreditamento”, prosegue Romano. “E poi chiediamo di implementare le funzioni dei comitati di partecipazione per trasformarli in organismi di controllo”. Sì, perché come ha spiegato proprio su questo sito la segretaria nazionale dello Spi Cgil, Antonella Pezzullo, responsabile del Dipartimento socio-sanitario, “il sistema della residenzialità, che oggi in gran parte nelle mani di privati, non può essere eliminato ma possiamo pretendere che funzioni meglio, sia per i pazienti sia per gli operatori. Ma se dietro non c’è un vero sistema pubblico, con interventi differenziati e graduali tra la domiciliarità e il ricovero, per milioni di famiglie non ci saranno alternative a questi luoghi, e tutti i discorsi risulteranno vani”.