Lombardia, diario da un ospedale #9. Il vuoto

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In questi giorni difficili nelle nostre case entrano immagini e parole che narrano di ospedali in affanno, di uomini e donne che lavorano senza sosta per salvare quante più persone possibile, di reparti di rianimazione stremati. LiberEtà vuole raccontare da dentro il lavoro di chi ogni giorno, con dedizione e generosità, regala un pezzo della propria vita alla collettività. Lo facciamo pubblicando le pagine del diario di una ricercatrice che lavora in un ospedale lombardo. Resta anonima, certo per pudore ma soprattutto per tutelare la fatica dei tanti medici, ricercatori e infermieri che stanno vivendo un passaggio della loro vita davvero complicato. Un diario che raccoglie e rappresenta la voce di tutti e i sentimenti, le preoccupazioni, le stanchezze, le esperienze e le sensazioni di chi lotta contro il coronavirus.

Lombardia, 17 aprile 2020

La sensazione che si prova a camminare lungo i corridoi di un Ospedale deserto è un profondo senso di inquietudine. Pazienti, medici, infermieri, amministrativi riempivano questi spazi di speranze e dolori, di impegno e fatica, di vittorie e di rese. In una parola, di umanità. Ho visto per anni l’Ospedale animarsi, prendere vita ogni giorno attraverso gli organismi che lo popolavano. Le parti comuni che una volta erano le più affollate – l’ingresso, l’accettazione ma anche il bar – ora sono deserte, involucri vuoti. Una cattedrale abbandonata, una trincea della guerra bianca, rimasta in ricordo e a monito di quei luoghi vivi soltanto quando vissuti.

Questi corridoi deserti sono il segno dell’eccezionalità dei tempi che abbiamo bisogno si concludano prima possibile, per tornare a curare e a prenderci cura di tutto e di tutti, non solo di questo nemico che ci ha costretti a uno scontro inatteso, lasciando tutto il resto abbandonato in questo modo innaturale. Torneranno i prati, ma per ora dobbiamo accettare che siano ancora campi di battaglia. Una battaglia che dietro i numeri della cronaca facciamo fatica a comprendete nella sua vastità.

Ho avuto modo di ascoltare i racconti di un medico già volontario in contesti di crisi internazionali e la sua esperienza in queste settimane in un Pronto Soccorso di Bergamo. Ancora pochi giorni fa ha dovuto assistere impotente alla morte di sette persone quasi contemporaneamente, senza avere modo o strumenti per aiutarle. Questa è la magnitudo della battaglia in corso, questo è il fronte dietro i numeri che ogni giorno vengono odiosamente snocciolati in tv. Ma c’è anche la battaglia tra chi combatte sul campo e chi ha il difficilissimo compito di decidere. Trapela tutto lo sconforto dalle parole del mio amico cardiologo impegnato in prima linea. Racconta che ormai anche per chi lavora in pronto soccorso i dispositivi di protezione sono agli sgoccioli: non ce ne sono abbastanza per sostenere questo sforzo ancora a lungo.

Nel frattempo chi decide non conosce come si lavora, non ha idea di come continuare a garantire gli standard di sicurezza e prende decisioni sulla base di informazioni spesso parziali o peggio sbagliate, aumentando i rischi di chi sta combattendo. Sono racconti dal fronte di una sanguinosa battaglia in corso, lontano dall’essere vinta nonostante l’enorme sforzo profuso e il prezzo fin qui pagato. Se vogliamo continuare con la metafora della guerra, allora la Lombardia è la nostra Stalingrado: qui si decidono le sorti. Ma il nemico non è un esercito e la sua natura ci offre una grande, tremenda responsabilità: la vittoria dipende esclusivamente da tutti noi e dalle nostre scelte. Siamo nelle nostre stesse mani.

È in questa frase che si nasconde tutta l’insidiosa, storica unicità di questa battaglia. Ci troviamo davanti alla più grande sfida sanitaria da un secolo a questa parte con tutti gli strumenti per vincerla, a patto di dimostrare una disciplina, una resistenza mentale, uno spirito di solidarietà, una visione strategica e una velocità di implementazione mai dovute dimostrate fino a oggi. Ci pone nudi davanti allo specchio. E sarà dall’onestà delle nostre risposte collettive per tutto il tempo necessario che dipenderà l’esito di questa battaglia, perché una cosa è certa: nessuno si salverà da solo. La più grande sfida che ci è richiesta è tornare ad avere fiducia nel prossimo, più che in qualsiasi altra cosa. Ognuno affidandosi a tutti gli altri e tutti prendendoci cura di ognuno, con grande impegno e augurandoci buona fortuna, compagna da non sottovalutare nei momenti difficili.

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