La musica al tempo del coronavirus. Una nota tira l’altra #17

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Forse la canzone napoletana non è propriamente definibile con la categoria di “musica classica”, ma non c’è dubbio che questo genere rappresenta, in tutto il mondo, un classico della musicalità italiana (anche per chi non ne capisce nemmeno una parola). Al pari, verrebbe da dire, delle arie più famose di Verdi, Rossini, Puccini. Basta guardare i programmi di Karaoke che si trovano in internet per rendersi conto che anche in Russia e in Cina e in Giappone cantano le nostre canzoni. Ma parlare di canzone napoletana al singolare è già una semplificazione. Si tratta di musica e di parole create lungo diversi secoli e con caratteristiche ovviamente molto differenti fra loro. Impossibile farne qui una classificazione compiuta: ci limiteremo a proporre alcuni modelli. Cercando di tralasciare, quando possibile, i titoli più noti e più cantati in assoluto e provando a guardare un po’ sotto la superficie. La canzone napoletana si può distinguere per temi e caratteri: la nostalgia, la passione amorosa, la gelosia, la vendetta, l’ironia, il lavoro, la favola. E per forma espressiva: l’invocazione, la dichiarazione, il dialogo, il desiderio di essere altro (un uccello, un oggetto).

Un esempio di quest’ultima forma sono le canzoni che cominciano con l’enunciazione “Vorrei essere…”, in genere per meglio avvicinare l’amata. Come esempio vi proponiamo “Vurria ca fosse ciaola”, di anonimo del XVI secolo dove il protagonista, che si chiama Cola, vorrebbe essere una ghiandaia e volare alla finestra del suo amore (nella speranza che lei non lo metta in gabbia). Eccola nell’interpretazione della Nuova Compagnia di Canto Popolare.
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Anche in altre canzoni “l’ambasciatore” tra l’amante e l’amata è un uccellino. Come nella famosa “Lu cardillo”, canzone anonima del ‘700, in cui passione, gelosia, vendetta, rispetto e “devozione” per la ragazza amata si intrecciano nel compito che viene affidato al cardellino. Sarà lui a dover confessare l’amore del suo “padrone” alla bella che abita nella casa di fronte. L’ascoltiamo nella versione di Lina Sastri, con un tempo un po’ veloce ma capace di emozionare e coinvolgere l’ascoltatore.
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Le radici della canzone napoletana sono molto antiche. Nell’opera teatrale “La gatta Cenerentola” Roberto De Simone (1976) recupera due canzoni napoletane del 1200: “Jesce sole” e il “Canto delle lavandaie del Vomero”. La prima è una struggente invocazione perché finalmente giunga l’alba del nuovo giorno e “le figliole” possano smettere di pregare, interpretata qui da Fausta Vetere e Antonella D’Agostino.
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La seconda parla di quattro fazzoletti (“quatte muccatora”) promessi in regalo, ma sembra che si alludesse a fazzoletti di terra e che si tratti quindi di una rivendicazione sociale e contadina. Qui l’ascoltiamo nella versione della Nuova Compagnia di Canto Popolare.
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3. La nostalgia amorosa e romantica e per la terra natia si concentra nella famosissima “Torna a Surriento” (Ernesto e Giambattista De Curtis). Vi proponiamo due versioni non classiche ma testimoni del successo enorme della canzone: quella di Luciano Pavarotti che chiude con un Do di petto l’esecuzione diretta da Zubin Metha alle Terme di Caracalla e, per curiosità, l’adattamento che ne fa Elvis Presley.
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Il dolore struggente per la perdita di un’antica relazione ha in “Voce ‘e notte” uno degli archetipi (Edoardo Nicolardi, Ernesto De Curtis, 1904). Qui il cantante fa una serenata dalla strada alla sua ex, ricorda i tempi passati (“quando, vergognosi, ci parlavamo con il ‘voi’”)  e poi conclude consapevole che il suo canto non servirà a nulla (“Ma cosa canta a fare”). L’interpretazione che vi proponiamo è quella modernizzata e ritmata dell’Orchestra Italiana di Renzo Arbore: cantano Francesca Schiavo e Eddy Napoli.
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In “Era de maggio” (musica di Mario Pasquale Costa su una poesia di Salvatore Di Giacomo del 1885) gli amanti si lasciano e si ritrovano nel mese di maggio dell’anno successivo, come si erano promessi. In questo caso vi segnaliamo l’interpretazione classica di Sergio Bruni.
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Tra le canzoni ironiche spicca “‘A tazza ‘e Caffè” (Vittorio Fassone, Giuseppe Capalbo, 1918) in cui la ragazza corteggiata e ritrosa, che si chiama Briggita, viene paragonata a una tazza di caffè (che in fondo ha lo zucchero e sopra è amara) e a una granita di caffè e poi di limone, con tutti i doppi sensi possibili. La versione di Roberto Murolo che vi presentiamo oltre che cantata splendidamente contiene anche il testo originale e la traduzione italiana.
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Buon ascolto!

Rubrica a cura di Gaetano Sateriale