In un mondo ostile. Il racconto di Tanny Giser

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Il racconto con cui Tanny Gyser ha partecipato al premio LiberEtà 2019

Sono nata a Buenos Aires il 27 dicembre 1923. Figlia di due ragazzi ebreo-russi diseredati che, scappando dalla fame, dalla miseria, dalla persecuzione razziale, dal terrore e dalla follia della guerra, nel lontano 1922 arrivarono in Argentina senza un soldo in tasca, senza conoscere una parola di spagnolo, senza che qualcuno li aspettasse al porto.

La prima guerra mondiale, come tutte le guerre, provocò stravolgimenti d’ogni tipo. Per la Russia fu la rivoluzione che pose fine allo zarismo e diede i natali alla Repubblica sovietica. Gli ebrei, però, furono sempre perseguitati sia dai bolscevichi sia dai menscevichi. C’erano i pogrom antisemiti, accreditati dal governo come spontanee rivolte antiebraiche, oppure come “spedizioni punitive”. I miei genitori, appena diciassettenni, scapparono in Polonia, non ho mai saputo come fossero riusciti ad arrivarci.

Ci  descrivevano spesso le nottate passate a dormire sulla paglia e il cibo sempre scarso. Sul loro spostamento dalla Polonia all’Argentina, un mistero per noi, ho trovato un documento che esplicitamente dichiarava l’imbarco in Olanda con destinazione sconosciuta per loro, semplice parte di un’enorme mandria. Le sofferenze patite nel viaggio, quelle sì, sono state frequenti argomenti nelle serate invernali passate in cucina con i compaesani. Nave affollatissima, con un numero di passeggeri non si sa quante volte superiore a quello autorizzato, disagi di tutti tipi per un viaggio durato più di un mese.

Tristi storie che continuano a ripetersi all’infinito, anche oggi, con altra gente, altre provenienze, altri mondi, ma sempre uguali nella tragedia. Mio padre, Leivi, chiamato sempre così nell’ambito familiare, fu anche Leòn, Luis o Livio. Mia madre invece fu sempre Beltzi per casa, parenti e amici, Berta per fuori casa, ma con il tempo diventò doña Berta, ben voluta da tutta la gente del quartiere. Avevano la stessa età, e io sono stata sempre la figlia dei rusos de mierda, così ci chiamavano nel mio quartiere, Liniers, situato nella parte ovest di Buenos Aires. I miei parlavano yiddish, la lingua degli ebrei originari dell’Europa orientale. Lo spagnolo non era la loro lingua.

Con noi figli il poco dialogo che c’è stato era sempre bilingue, loro yiddish, noi spagnolo. Non eravamo preparati: persi in un mondo ostile, l’etichetta di “diverso” è stata sempre pesante e non ha fatto altro che male. Mio padre vendeva stoffe a domicilio e aiutava a distribuire una specie di giornalino sovversivo edito in lingua yiddish. Era il periodo post-rivoluzione russa e io ero ancora troppo piccola, anche se ho cominciato a sapere da che parte stare abbastanza presto. Nel 1949 conobbi l’uomo che poi sposai. Si chiamava Spartaco. Era italiano, famiglia di partigiani perseguitati, padre sindacalista messo in galera dai fascisti in ogni occasione politicamente rilevante. Con lui conobbi l’Italia.

Ci trasferimmo qui nel 1963, anche se vedere bruciare così un pezzo della propria storia non è facile da descrivere né da sopportare. La prima volta che partecipai a un 1° maggio, a piazza San Giovanni, a Roma, mi sembrava di sognare: vedevo per la prima volta sventolare vere bandiere rosse senza che nessuno temesse la presenza dei militari, come in Argentina. La gente sembrava un campo di papaveri! Tante voci, tanti canti, tanti sogni, tante certezze e tutto alla luce del sole. Per me la vita ricominciava, come in un cambio di scena a teatro.