“Collasso annunciato”. In oncologia il dramma sono le liste d’attesa

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Un milione di screening per il tumore alla mammella saltati, un milione e 100mila test per il colon retto. In poco più di un caso su due si rispettano i tempi corretti per gli interventi oncologici. Questi ritardi stanno facendo aumentare i casi di tumore presi in fase avanzata. Parla il professor Francesco Cognetti, oncologo, impegnato da tempo nella lotta contro le liste d’attesa 

«Solo nel 2020 abbiamo perso 1.300.000 screening della cervice uterina, circa un milione di test per il tumore alla mammella e 1.100.000 per il tumore del colon retto e non stiamo recuperando il ritardo. Avanti di questo passo nei prossimi mesi e anni registreremo un significativo aumento dei tumori in fase avanzata e purtroppo della mortalità». Francesco Cognetti, professore di oncologia all’università Unicamillus di Roma e presidente di Foce, la Federazione degli oncologi, ematologi e cardiologi italiani, da quando è in pensione, ha fatto della lotta alle liste d’attesa per i malati di cancro una missione.

Siamo così in ritardo?
«Purtroppo sì, e i segnali non sono incoraggianti. A pagare sono soprattutto il Lazio e le regioni del Sud che non raggiungono il 30 per cento di screening sulla popolazione interessata, ad eccezione della Puglia che, con Lombardia, Marche e Liguria, viaggia tra il 30 e il 45 per cento. Stanno messe meglio Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Toscana, Trentino, Umbria e Veneto. In poco più di un caso su due viene rispettato il tempo di un mese per l’intervento chirurgico. Un ritardo che si paga a caro prezzo».

Ma gli interventi non dovrebbero avere un percorso di urgenza?
«L’urgenza vera e propria nella chirurgia oncologica riguarda circa il 10-15 per cento dei casi. Certo, se a un ammalato di cancro al colon si occlude l’intestino si interviene subito. Ma gran parte delle operazioni sono programmabili, il che significa agire in venti-trenta giorni, non a distanza di mesi. Così rischiamo di perdere la partita».

Un miliardo di euro per le liste d’attesa, ma niente in questa finanziaria. Bastano?
«Purtroppo, non tutte queste risorse si tramuteranno in attività, se non c’è chi può tradurle in atti concreti. Abbiamo sessantamila medici in meno rispetto alla Germania e quarantacinquemila in meno rispetto alla Francia. Senza contare gli infermieri: per far funzionare gli ospedali, ce ne vorrebbero settantamila in più. I reparti sono al collasso e le situazioni encomiabili sono il frutto del sacrificio di un personale che, pur in condizioni di grande disagio, non demorde. Lo stato dei nostri pronto soccorso è la spia di una sofferenza più ampia. Veniamo da anni di programmazione sbagliata, in cui governi e presidenti di Regioni si vantavano di aver bloccato le assunzioni. La realtà è che la sanità senza personale non ce la fa, e se continuiamo così dovremo dire addio alla sanità pubblica. Se poi con la legge di bilancio si pensa anche al ritorno ai vincoli di spesa e si indugia nell’autonomia differenziata tra Regioni, possiamo immaginare i disastri prossimi venturi».

E la lezione del Covid?
«L’abbiamo già dimenticata. Avrebbe avuto più senso intervenire sulla Costituzione per dare più poteri allo Stato».

Cosa pensa del provvedimento del governo che ha riportato prima del tempo i medici no vax al loro posto?
«Andiamo oltre la propaganda. La teoria secondo cui vengono chiamati in ospedale perché mancano i medici è totalmente inventata. Parliamo di due-trecento persone che andrebbero sospese dall’ordine e che non potranno certo colmare l’assenza di sessantamila medici».

(Articolo tratto dal numero di gennaio di LiberEtà)

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