Bruno Trentin, il sindacato dei diritti

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Insieme a Giuseppe Di Vittorio e Luciano Lama, Bruno Trentin è stato uno dei leader più amati della Cgil. Ha lasciato un patrimonio di idee che è ancora oggi l’architrave ideologico del sindacato dei diritti.

Ho incontrato per la prima volta Bruno Trentin negli anni Sessanta, in un salone della Camera del lavoro di Brescia. Aveva un’aria da intellettuale un po’ aristocratico, con tanto di studi ad Harvard e una laurea con Norberto Bobbio. Molti sapevano della sua vita, prima accanto al padre, Silvio, professore universitario, antifascista, esiliato a Tolosa a fare il libraio. Lui, invece, Bruno, era poi diventato capo partigiano per Giustizia e libertà, ed era entrato prima nel Partito d’azione poi nel Pci. Inizia la sua attività nell’ufficio studi della Cgil, il lavoro che prediligeva, accanto a Giuseppe Di Vittorio e a Vittorio Foa. Aveva partecipato, negli anni Cinquanta, con loro e con Luciano Lama, alla cosiddetta “autocritica“ del 1956 che aveva portato la Cgil al “ritorno in fabbrica” dopo la sconfitta nelle elezioni per la commissione interna alla Fiat.

L’autunno caldo. Anni dopo, con Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, Bruno Trentin è alla guida dei mitici metalmeccanici. Siamo ormai all’autunno caldo e alle conquiste storiche (il diritto d’assemblea, le 40 ore di lavoro settimanali, il diritto allo studio con le 150 ore, la nascita dei consigli di fabbrica). Trentin è contrario alla richiesta di aumenti salariali eguali per tutti, e si batte per la conquista di qualifiche professionali diversificate che tengano conto del mestiere operaio, ma è messo in minoranza durante un’ampia consultazione che vede l’affermarsi di una nuova figura operaia, quella dell’addetto alla catena di montaggio. Trentin accetta il verdetto. Inizia così una stagione nuova, fondata sul sindacato dei consigli che sull’onda del protagonismo sindacale porterà a un tentativo coraggioso di creare un sindacato unitario superando le tre sigle storiche (Fiom, Fim e Uilm). Nasce così la Flm, Federazione lavoratori metalmeccanici. È una sfida che punta a rafforzare l’autonomia del sindacato attraverso l’incompatibilità tra cariche sindacali e politiche, ma ha vita breve. Le incompatibilità restano, ma l’unità organica si deve interrompere.

Gli anni di piombo. Intanto nelle fabbriche appare un nemico nuovo: il terrorismo delle Brigate rosse. Mentre nel paese cresce la strategia della tensione alimentata dalle stragi fasciste e da movimenti come quello dei “boia chi molla” affrontati dai metalmeccanici a Reggio Calabria. E comincia il declino, con la sconfitta del 1980 alla Fiat. Con Trentin, ora segretario confederale, davanti ai cancelli di Mirafiori, nel tentativo di convincere gli operai al passaggio dal picchetto senza fine agli scioperi articolati. Non sarà ascoltato. Così come non troverà sbocco una sua proposta di riforma del salario per far fronte alla richiesta di cancellare la scala mobile. Siamo al 1984, al decreto di san Valentino e alla rottura tra Cgil, Cisl e Uil che porterà in piazza la sola Cgil.

Gli anni Ottanta. Quando Luciano Lama lascia la guida della Cgil molti si aspettano la designazione di Trentin. Ma forse l’ex leader dei metalmeccanici è ancora sospettato (e a ragione) tra i gruppi dirigenti della Cgil e del Pci, di troppa autonomia. La scelta cade su Antonio Pizzinato, un quadro operaio e, tra l’altro, un caro amico del candidato bocciato. La scelta è solo rimandata. Qualche anno dopo proprio Bruno Trentin diventerà segretario generale. Lo attendono le prove delle concertazioni triangolari. Con quel fatidico 1992 quando, con l’Italia sull’orlo del fallimento, firma un accordo di politica dei redditi col governo presieduto da Giuliano Amato. E il giorno dopo si dimette da segretario generale della Cgil. In quell’occasione rilascia al sottoscritto un’intervista lunga due pagine su l’Unità, amareggiato per quel ricatto cui si sentì costretto a soggiacere per evitare lo sfascio del paese. Eppure, diceva, si poteva fare un patto sociale equilibrato. La prova sarebbe venuta un anno dopo, col governo Ciampi, con un nuovo sistema contrattuale.

Che cosa lascia Bruno Trentin? Un programma fondamentale, varato a Chianciano nel 1989 per un sindacato che dovesse coniugare diritti e solidarietà. La costruzione di un centro studi, l’Ires, con una sua autonomia di ricerca. La nascita del sindacato delle nuove identità lavorative, il Nidil, per rappresentare il lavoro precario. La spinta per un processo di delegificazione nella contrattazione del pubblico impiego e la sua privatizzazione. L’uscita dei rappresentanti sindacali dai consigli di amministrazione degli enti previdenziali. Lo scioglimento delle correnti politiche nel sindacato. Tutte cose che ancora danno anima ideale e ossatura organizzativa alla Cgil.