Achille Grandi: il sindacalista dell’unità

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A settant’anni dalla scomparsa ricordiamo uno dei grandi sindacalisti del dopoguerra, che dal 1944 al 1946 fu con Di Vittorio e Lizzadri alla guida della Cgil unitaria.

Il 5 agosto 1948 il direttivo della Cgil dichiarò decaduti dai loro incarichi i dirigenti della corrente democristiana. Giulio Pastore lo seppe mentre partecipava al consiglio nazionale della Dc presso la casa di riposo dei frati francescani a Grottaferrata. A informarlo fu il giornalista Vittorio Gorresio, che descrisse la reazione del futuro leader della Cisl: «Preso da un eccesso di euforia, andava lieto verso la campagna, come fatto leggero dalla buona notizia, e al primo frate che vide curvo, batté la mano sulla schiena: “Allegri, disse, è andata, è fatta”». Sarebbero andate così le cose se al posto di Pastore ci fosse stato ancora Achille Grandi? Difficile immaginare uno sbocco diverso dalla scissione, ma si può essere certi che Grandi avrebbe vissuto quella rottura come una drammatica sconfitta e non come una liberazione da festeggiare con salti di gioia. C’era la sua firma in calce al patto di Roma e negli oltre due anni in cui fu alla guida della Cgil, accanto a Di Vittorio e Lizzadri, Grandi cercò sempre di far prevalere le ragioni dell’unità, anche a costo di apparire a qualche suo compagno di partito troppo arrendevole nei confronti della sinistra sindacale. Un’accusa ingenerosa per l’uomo che incarnava la migliore tradizione del cattolicesimo sociale.

Achille Grandi era nato a Como il 24 agosto 1883, veniva da una famiglia povera; quando il padre, operaio tessile, rimase disoccupato dovette provvedere al sostentamento dei genitori e dei tre fratelli più piccoli. Al termine delle elementari lasciò la scuola per andare a lavorare in una tipografia, iniziando a frequentare le organizzazioni operaie cattoliche. Ben presto si segnalò per i suoi interventi sulle principali questioni al centro del dibattito sindacale e per le doti organizzative. Nel 1908 fu tra i fondatori del Sindacato italiano tessili, primo sindacato industriale di matrice cattolica e nucleo formativo del gruppo dirigente del sindacalismo bianco. Alla vigilia della prima guerra mondiale Grandi si era già imposto come uno dei più noti e validi dirigenti del movimento sociale cattolico. Nel 1918 fu tra i promotori del “programma iniziale” della Confederazione italiana dei lavoratori (Cil) e aderì all’appello di don Sturzo per la costituzione del Partito popolare, nelle cui file venne eletto deputato.

Sindacato e partito. Secondo Grandi tra sindacato e partito doveva esserci uno scambio di appoggi e aiuti reciproci, ma al tempo stesso andava affermata la piena autonomia politica e sindacale dei cattolici nei confronti di liberali e socialisti. Fu tra i pochi deputati popolari a negare la fiducia al governo Mussolini e quando, il 6 dicembre 1922, venne eletto segretario generale della Cil, si batté strenuamente per salvaguardare l’autonomia della sua organizzazione, scontrandosi con gli ambienti cattolici inclini al compromesso con il fascismo. Nel 1926 la Cil venne sciolta e Grandi, amareggiato per la sconfitta e per le incomprensioni con la gerarchia, si ritirò a Milano in isolamento quasi totale, adattandosi ai lavori più disparati. Riprese l’attività politica nel 1940 partecipando alle prime riunioni clandestine di esponenti cattolici da cui nacque la Democrazia cristiana. Nel 1942 cominciò a tessere da Torino le fila per una ripresa dell’attività sindacale e fu poi incaricato dalla Dc di condurre le trattative con socialisti e comunisti per dar vita alla Cgil unitaria.

I “sacrifici necessari”. A quanti, all’interno della Dc e del mondo cattolico, si opponevano all’intesa, Grandi fece presente che, in caso di mancato accordo, ogni corrente sindacale avrebbe ripreso la propria libertà d’azione, dicendosi tuttavia convinto che ciò non sarebbe avvenuto perché ognuno avrebbe compiuto “i sacrifici necessari”. Dopo aver promosso la costituzione delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli), assumendone la presidenza, nel febbraio 1945 si dimise per garantirne completa libertà di movimento nei confronti della Cgil. Deputato alla Costituente, Grandi avvertì il rischio che la Dc potesse piegarsi «alle esigenze di elementi retrivi» quando invece avrebbe dovuto battersi per l’avvento di «un regime schiettamente democratico e rinnovatore nel campo sociale e politico». Difese tuttavia De Gasperi quando, in nome dell’interesse generale, si oppose alle continue richieste di aumenti salariali. Proprio le divergenze in materia salariale costituirono uno dei principali punti di attrito all’interno della Cgil.

Stanco e malato, Grandi spese gli ultimi mesi di vita in un difficile e serrato confronto con i suoi compagni di fede sempre più critici nei confronti dell’unità sindacale. Morì a Desio il 28 settembre 1946. Un mese prima, incontrando i sindacalisti cristiani della Brianza, aveva detto di comprendere le ragioni che spingevano alla rottura, ma di essere ancora convinto che fosse più utile restare dentro la Cgil per condizionarne le scelte.