Enzo Camerino ricorda il rastrellamento del ghetto di Roma di settantadue anni fa. Strappato dal ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 a soli 14 anni e deportato ad Auschwitz, Enzo Camerino è stato uno dei sedici ebrei romani che riuscirono a tornare vivi dal lager nazista. Dopo anni di silenzio, nel settantesimo anniversario del rastrellamento del ghetto, ha voluto raccontare la sua storia agli studenti di un liceo romano nel quartiere degli esuli istriani. La sua inedita testimonianza poco prima di morire.
La mattina del 16 ottobre 1943. Il mio nome è Enzo Camerino e sono molto contento di trovarmi con voi giovani. Mi fa piacere sapere che a scuola vi parlino di quello che successe a Roma il 16 ottobre 1943. All’epoca avevo 14 anni e non potevo minimamente immaginare quello che mi sarebbe accaduto. Abitavamo a Roma. Mio padre vendeva cioccolata all’ingrosso. Eravamo una famiglia normale. La mattina di sabato 16 ottobre del 1943, verso le 5,30, bussarono alla porta e ci svegliarono. Un tedesco e un fascista ci mostrarono un foglio e ci dissero che ci dovevamo preparare tutti per un viaggio. Non più di otto giorni. Così ci dissero. Prendemmo in fretta alcune cose e li seguimmo. Ci portarono alla stazione Tiburtina e ci caricarono sui carri bestiame.
Il mio numero. Uomini, donne, bambini, vecchi e giovani. Eravamo in cinquanta o sessanta persone sullo stesso carro. Faceva freddo e non c’era spazio neanche per sedersi. Come bestie. C’era mia madre, mio padre, mia sorella Wanda, mio fratello Luciano e mio zio Renato. Nessuno di noi sapeva cosa sarebbe successo. Appena scesi dal treno, ad Auschwitz, c’erano i cani e tanti militari tedeschi. Iniziarono a parlare in tedesco e per chi non capiva la loro lingua c’era un interprete. Ci divisero: uomini e donne, e poi chi poteva lavorare da quelli giudicati non idonei al lavoro. Da quel momento non vidi più né mia madre né mia sorella. Di mio zio poi seppi che fu mandato a morire perché giudicato inabile. Ci fecero fare il bagno. Nessuno di noi pensava alle camere a gas. Non sapevamo niente. Ognuno di noi diventò un numero. Il mio era il 158509. Eccolo, è ancora qui sull’avambraccio.
Il barbiere di Birkenau. Tutto sommato fui fortunato. Facevo quello che mi ordinavano di fare. A Birkenau mi fecero fare il barbiere. Di notte uscivo dalla camerata e andavo a trovare mio fratello e mio padre per avere notizie e racimolare qualche avanzo di cibo. Pane raffermo, qualche patata, erbacce e qualche frutto. Lungo la strada c’era un bell’albero di mele. Un giorno non resistetti alla tentazione di coglierne una, la fame era tanta. Se ne accorsero, ma per fortuna non spararono. Fecero rapporto e così finii di fare il barbiere e mi mandarono in miniera dove si lavorava a parecchi metri di profondità, in ginocchio per dodici ore al giorno.
Tramandare la memoria. Oggi racconto a voi la mia storia, ma per molti anni in famiglia non ne ho parlato: né a mia moglie né ai miei figli. Non so perché. Certo a ripensare a ciò che ho passato, sembra di ricordare cose incredibili. Ma oggi sono contento di raccontarle proprio a voi giovani. Perché così la memoria non sarà persa. Voi dovete essere testimoni e cercare di non fare più gli sbagli che sono stati fatti in passato. Oggi vi ho raccontato la mia storia e la dovete tenere bene a mente per raccontarla ad altri. Questo vorrei per voi e per tutti i giovani che verranno dopo di voi, per non dimenticare mai.