Viaggio tra i medici di famiglia

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Le settimane passano, la seconda ondata della pandemia non accenna ad arrestarsi. I medici continuano a lavorare giorno e notte, dentro e fuori dalle corsie. Prosegue il nostro viaggio tra i medici di famiglia. Una prima linea che è punto di riferimento fondamentale per i pazienti. Stavolta siamo al Nord.

A restituirci un quadro della situazione è il coordinatore dei medici di medicina generale della Funzione pubblica Cgil, Giorgio Barbieri, medico di famiglia a Milano: “È difficile, se non impossibile, avere una fotografia chiara dei positivi. Il tracciamento è saltato. Noi medici di medicina generale cerchiamo di sostenere i dipartimenti di igiene e prevenzione ma la mole di dati è enorme”. Il lavoro, secondo Barbieri si è moltiplicato in modo esponenziale: “Nei casi di Covid prima si fa una segnalazione, poi si richiede il tampone, poi ci sono le verifiche, poi bisogna cercare i contatti, si isola la famiglia e si danno disposizioni di isolamento fiduciario eccetera”.

E poi i tamponi vengono fatti ma non sempre si fa in tempo a processarli. Non ci sono sufficienti tecnici di laboratorio, biologi. Eravamo già sotto organico in condizioni normali. Figuriamoci ora. Sarebbe assurdo pensare che la situazione non possa migliorare. Nel senso che c’è un problema più grande di noi che prescinde dalla pandemia”: il dottore si riferisce ai problemi strutturali che il sistema sanitario si porta dietro da anni. E la sera, quando il lavoro finisce, le forze sono esaurite. Lo stress psicologico e il carico emotivo si fanno sentire.

Il dottor Barbieri tocca un altro tasto dolente: i medici di famiglia che vanno in pensione: “Si sapeva. Quasi la metà andrà via nei prossimi cinque anni. Ci si poteva preparare”. Secondo Barbieri in Lombardia sono state fatte scelte scellerate. “La legge 23 della Regione Lombardia ha disposto un inizio di privatizzazione del servizio di gestione del paziente cronico, affidato a cooperative o società private”. Per Barbieri il problema sta anche nel numero elevato di pazienti che ogni medico può prendere in carico: “1500 è un numero altissimo e vogliono addirittura aumentarlo”. Ecco perché poi in caso di pandemia il sistema risulta letteralmente svuotato e indebolito dall’interno. Le prospettive non sono rosee. “Finita questa pandemia, arriverà un altro virus. Per questo è fondamentale che si riveda il sistema. Ora, non tra qualche anno”.

Ma oltre a questo, secondo Barbieri c’è anche un problema di educazione sanitaria. “Educazione sanitaria vuol dire per i policy maker ricordarsi che la salute è economia e dunque vuol dire prendere decisioni adeguate, come integrare i medici di medicina generale dentro il sistema sanitario nazionale. Invece per ora siamo privati convenzionati”. E vuol dire anche superare il “consumismo sanitario”, ovvero recuperare un concetto di sanità come bene pubblico. Che vuol dire in termini concreti? “Non bisogna fare esami inutili e approfittare del fatto che abbiamo una sanità pubblica. Bisogna comportarsi in modo attento anche per tutelare gli altri. La sanità non è un pozzo senza fondo”.

Ma educazione sanitaria vuol dire anche altro. “Siamo abituati a pensare che si debba andare al pronto soccorso per qualunque cosa e presi dal panico spesso ci andiamo. E così i pronto soccorso stanno facendo in parte un lavoro che non è il loro. E molti casi potrebbero essere trattati sul territorio. Però mancano strutture adeguate dove ottenere prestazioni facili e semplici”.

Spostare le cure dall’ospedale al territorio, sembra un sogno. Eppure è ciò che andrebbe fatto, con urgenza, a detta di tutti gli operatori del sistema sanitario: “Per esempio, avere un ecografista una volta a settimana in ambulatorio potrebbe risolvere tanti problemi e consentirebbe alle persone di non andare in ospedale”.