Il padre di Carol è ricoverato in una rsa di Roma. Carol non lo vede da un mese e mezzo. E non sa se riuscirà a rivederlo. In queste settimane si parla di malati Covid, si parla di decessi nelle rsa, di una strage silenziosa che si consuma sin dall’inizio della pandemia, aggravandosi sempre più. Ma si parla meno delle vite dei parenti dei malati, le vite dei familiari dei pazienti ricoverati nelle case di riposo disseminate su tutto il territorio nazionale. Anche a loro, ai familiari, il Covid ha stravolto vite, abitudini, affetti, sentimenti e speranze. E anche la visione del futuro.
Carol ha deciso di incontrarci su skype. E ha condiviso con noi la sua dura esperienza. Vi raccontiamo la sua storia.
“Mio padre sta bene”, dice Carol quando la chiamiamo. Alle sue spalle c’è una stampa di Hokusai, il famoso artista giapponese autore de La grande onda di Kanagawa. Ecco, per affrontare l’emergenza coronavirus senza poter vedere i propri cari chiusi nelle residenze assistite serve un grande slancio e tanta energia, proprio come quella della grande onda. Carol ce la mette tutta. “Non vedo mio padre dal 29 febbraio, il giorno del suo compleanno. Siamo andati a festeggiarlo nella struttura, io, mia madre e mio fratello”.
La mamma vive da sola in una casa a sud ovest di Roma. Carol non vede nemmeno lei da quel 29 febbraio. “Pochi giorni dopo il compleanno di mio padre hanno chiuso gli accessi e hanno limitato anche il cambio della biancheria a due volte la settimana e in orari precisi”. Tutto si è interrotto da quel giorno. “Nel frattempo il suo tempo interiore probabilmente si è arrestato. Mio padre ha una demenza chiamata “a corpi di Lewy”. È una delle tante demenze senili che però lo ha colpito abbastanza presto, a settant’anni. Oggi ne ha settantacinque”. È una malattia degenerativa, somiglia all’Alzheimer ma il sintomo prevalente è quello delle allucinazioni e dei deliri. Una patologia molto invalidante. Per le persone affette da queste malattie sono importanti abbracci, carezze e sorrisi più di qualunque parola. “Gli operatori fanno quel che possono”, spiega Carol, “ma ora con l’emergenza Covid sono rimasti in pochi, e ovviamente non possono dare ai pazienti quelle stesse attenzioni che darebbero i familiari”.
Quando hanno chiuso tutto, Carol e sua madre si sono sentite rassicurate: sapevano che era il modo migliore per tutelare la salute di chi era ricoverato. “Da subito hanno abbiamo sentito parlare di una riduzione del personale, solo infermieri e dottori. Tante figure come fisioterapisti e terapisti occupazionali sono stati messi in pausa per evitare che ci fossero troppe persone che entravano nella struttura. Ma mio padre avrebbe bisogno di fare fisioterapia, e non solo. Sappiamo però che questa riduzione degli operatori presenti serve a tutelare anche la sua salute, quindi non possiamo che accettarla di buon grado”.
Ovviamente le ansie ci sono sempre, come c’è il dolore per la malattia, cui ora si aggiunge la distanza, la paura del virus, il timore per il futuro. Carol sente sua madre tutti i giorni. Il più delle volte deve tranquillizzarla. È stato già così difficile portare suo padre nella rsa. Ora le cose si sono fatte ancora più complicate. A distanza è difficile sapere cosa accade dentro. Difficile sapere se chi hai lasciato dentro sta bene, se ha bisogno di qualcosa. “E non nascondo che ogni volta che guardo le notizie e gli aggiornamenti, il mio pensiero è quello di andare subito a cercare il nome della rsa in cui è ricoverato papà tra i possibili luoghi in cui si stanno sviluppando i focolai”.
Carol può vedere suo padre in foto, o con qualche video. A mandarglieli sono gli infermieri o gli psicologi che lavorano nella rsa. “Sta al loro buon cuore e alla loro buona volontà. In alcune strutture utilizzano anche le videochiamate, ma con mio padre non possiamo farlo”. Già, perché il linguaggio è un canale di comunicazione non più utilizzabile. “La parola non era più già da tempo un mezzo di contatto. Per questo era importante andare a trovarlo, dargli un abbraccio, una carezza, cercare di incrociare il suo sguardo e catturargli un sorriso. Tutto questo da più di un mese non c’è e se devo pensare che la situazione andrà avanti ancora per tanto tempo, immagino che sarà molto difficile ristabilire un contatto con lui”.
Quegli abbracci e quegli sguardi forse erano la vera medicina. Ora quella medicina non c’è e Carol non sa per quanto tempo ancora non ci sarà. “Quello che temo è di non riconoscerlo più e di non essere più riconosciuta. Tra un paio di mesi mi auguro di poterlo riabbracciare. Spero riusciremo a ritrovare quel papà che ho lasciato il 29 febbraio. Ho un po’ di dubbi, ma anche la speranza”.