Processo alla Resistenza. Quando a finire in tribunale erano i partigiani

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Dopo il 25 aprile, repubblichini e fascisti venivano amnistiati e reintegrati nei ruoli dello Stato. Migliaia di partigiane e partigiani invece erano imputati come fuorilegge. Michela Ponzani ha ricostruito la verità storica e politica di quel periodo

«Se qualcuno, quando eravamo sulle montagne a condurre la guerra partigiana, fosse venuto a dirci che un giorno, a guerra finita, avremmo potuto essere chiamati davanti ai tribunali per rispondere in via civile di atti che allora erano il nostro pane quotidiano gli avremmo riso francamente in faccia».

La frase è del partigiano Dante Livio Bianco – due medaglie d’argento al valor militare, comandante delle formazioni di Giustizia e libertà del Piemonte – e apre il libro scritto dalla storica Michela Ponzani, Processo alla Resistenza.

L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022, che affronta il nodo spinoso dell’eredità della guerra partigiana nella Resistenza. Il titolo e il contenuto del volume sono densi di amare scoperte: in Italia, tra il 1945 e gli anni Sessanta, mentre con le amnistie si condonavano anni di galera a fascisti, collaborazionisti, repubblichini colpevoli di azioni orribili anche contro la popolazione civile, tra quindicimila e ventimila donne e uomini che avevano aderito alla lotta di Liberazione venivano processati nei tribunali e trasformati in pericolosi fuorilegge.

«Il processo alla Resistenza – scrive Michela Ponzani –, tema rimosso dalla memoria collettiva del paese, venne celebrato nelle aule di giustizia dell’Italia repubblicana e per decenni ha animato il dibattito mediatico plasmando distorsioni, manipolazioni, miti e luoghi comuni “antiresistenziali”, in un’infinita serie di polemiche a posteriori. La messa sotto accusa dell’antifascismo finì con il ribaltare le ragioni e i torti, i meriti e le bassezze, i valori e i disvalori, trasformando coloro che avevano combattuto contro nazisti e fascisti in pericolosi fuorilegge che avevano attentato al bene della patria (esponendola all’invasione angloamericana e ai tragici effetti delle rappresaglie dell’esercito occupante tedesco) e messo a repentaglio la sicurezza nazionale, che sarebbe stata difesa invece dai combattenti di Salò».

Assassini, vigliacchi, terroristi: così i giornali degli anni Cinquanta parlavano dei partigiani finiti sui banchi degli imputati…

«Si trascinano nelle aule di giustizia gli esponenti di quella generazione – afferma la storica – che ha lottato per liberare il paese, sulla base di leggi e norme eccezionali approvate durante il ventennio fascista. E, a causa di una magistratura che ha fatto carriera durante il regime, si considerano come atti di delinquenza comune quelle che invece sono azioni legittime di guerra partigiana. È una vicenda completamente rimossa dalla memoria pubblica».

Qualcuno però, la memoria non sembra averla persa. E, come il presidente del Senato, Ignazio La Russa, continua una narrazione antica, come quando, in occasione del 25 aprile, ha definito i nazisti uccisi dai partigiani in via Rasella, a Roma, un’innocua «banda musicale di semi pensionati».

«Quella frase è un po’ l’emblema del processo alla Resistenza, dal punto di vista legale ma anche dal punto di vista storico. C’è un paese che non si riconosce nei valori dell’antifascismo. Via Rasella è la principale di queste azioni considerate inutili sul piano militare, perché tanto comunque ci avrebbero liberato gli alleati. La Resistenza è considerata dannosa perché ha esposto i civili ai rischi delle rappresaglie. L’Italia è un paese che anziché chiedere più giustizia per i crimini di guerra commessi dagli occupanti tedeschi e dalle milizie fasciste della Repubblica sociale italiana, tende a mettere sotto accusa gli esponenti della guerra partigiana».

Dopo la Liberazione, però, il personale presente nelle amministrazioni durante il ventennio fascista rimase tutto al suo posto.

«Funzionari di Stato, poliziotti, magistrati che avevano fatto carriera durante il fascismo si sono riciclati nell’Italia repubblicana. Nessuno si sconvolge per il fatto che il presidente del tribunale della razza è diventato presidente della Corte di cassazione, così come è un dato di fatto la presenza di magistrati che avevano fatto carriera durante il regime e che si ritrovano a esercitare nell’Italia repubblicana. Non vi fu una forte volontà politica di riscrivere leggi e norme che permettessero di considerare le azioni di guerra partigiane come azioni militarmente legittime.

Questo è il nodo: non equiparare le azioni partigiane a quelle delle forze armate, permettendo in questo modo alla magistratura di considerarle atti di guerra irregolari. Per evitare che i partigiani venissero processati per diserzione, perquisizioni, per fucilazioni di fascisti (considerati reati comuni secondo il codice penale fascista), sarebbe stato necessario approvare leggi ad hoc per equiparare le azioni partigiane a quelle delle forze armate. Non accadde. Poi a un certo punto, visto che mancano queste leggi, diventa inutile approvare l’amnistia.

Quella che conosciamo come amnistia Togliatti viene approvata per garantire il reinserimento degli ex fascisti nella Repubblica come cittadini nel nuovo Stato democratico, ma contiene anche un articolo, il quarto, che deve rendere non punibili tutte le azioni di guerra partigiana. Ma la legge è scritta male e così fornisce alla magistratura un ampio spettro di discrezionalità».

Quanto può avere inciso in questo accanimento contro i partigiani il fatto che nella Resistenza una parte preponderante è rappresentata da aderenti al partito comunista?

«Ha inciso moltissimo. Il clima nel quale si celebrano questi processi è quello della guerra fredda. I primi vengono celebrati dalle corti militari alleate subito dopo la Liberazione, per reati come possesso illecito di armi, con lo scopo di frenare l’intenzione insurrezionale delle formazioni partigiane. Dopodiché, dal 1948 ai primi anni Sessanta assistiamo a un’ondata di processi che coinvolgono non solo ex partigiani, ma anche sindacalisti, militanti del Pci e del Psi, contadini accusati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato per i disordini che seguono all’attentato a Palmiro Togliatti.

La classe dirigente rappresentata da Alcide De Gasperi e Mario Scelba, che pure si riconosceva nell’antifascismo, comincia a sostenere che esiste un piano deliberato per sovvertire lo Stato democratico. Molti credono che ci sia il pericolo della rivoluzione. Ma è interessante che, come strumento di contrasto, vengano utilizzate le stesse leggi che nel ventennio fascista avevano portato in galera personaggi come Umberto Terracini e Sandro Pertini e che gli ex partigiani in attesa di giudizio vengano portati nelle stesse carceri dove per vent’anni gli antifascisti erano rimasti rinchiusi».

Siamo condannati a vivere come divisive date come il 2 giugno e il 25 aprile o ci sarà modo di superare il conflitto?

«Intanto possiamo dire che è assurdo che una data come il 2 giugno, festa della Repubblica, sia divisiva. È come se noi dicessimo ai francesi che il 14 luglio è una festa divisiva. Noi non siamo la Francia e abbiamo un passato e un presente di conflittualità. È come se fossimo ancora nelle fasi di impianto, di costruzione della nostra Repubblica democratica, che invece ha mostrato di avere le gambe forti e di sopravvivere anche a periodi difficili come la stagione del terrorismo, degli attentati di mafia.

Dovremmo essere fieri di queste date, celebrarle e dar loro un valore che non può essere divisivo. Il 25 aprile, che è la festa della Liberazione dal nazifascismo, e non la festa della libertà data da non si sa bene che cosa, come ogni tanto si dice. Dovremmo conservare memoria di quello che è stato il dramma delle stragi nazifasciste nel nostro paese. Siamo ancora divisi su queste cose perché non vogliamo fare i conti con il passato. Devo dire però che si aprono degli spiragli di speranza. Ho frequenti incontri con le generazioni più giovani che non hanno voglia di contrapposizione e oltre a riconoscere l’importanza di alcune celebrazioni pensano sia inutile continuare con polemiche che la politica strumentalizza facilmente. A loro interessa guardare al futuro».

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di luglio-agosto di LiberEtà. Per abbonarti alla nostra rivista clicca qui