1946: Churchill battezza la cortina di ferro. In un discorso tenuto negli Stati Uniti l’uomo che si era alleato con Stalin per battere il nazismo, detta il nuovo scenario politico internazionale all’insegna dello scontro di civiltà con l’Urss.
In cauda venenum, il veleno è nella coda. Sembra proprio ispirarsi al famoso detto latino Winston Churchill nel discorso che tiene il 5 marzo 1946 al Westminster College di Fulton, nel Missouri. Dopo aver espresso ammirazione e stima «per il valoroso popolo russo e per il mio compagno di guerra, maresciallo Stalin», l’ex premier britannico dà il benvenuto alla Russia «nel suo giusto posto tra le più grandi nazioni del mondo». «Siamo lieti – sparge altro miele l’ex premier britannico – di vederne la bandiera sui mari. Soprattutto, siamo lieti dei frequenti e intensi contatti tra il popolo russo e i nostri popoli».
Il battesimo della cortina di ferro. Ma ecco il veleno, la stilettata finale: «È tuttavia mio dovere prospettarvi determinate realtà dell’attuale situazione in Europa. Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia; tutte queste famose città e le popolazioni attorno a esse, giacciono in quella che devo chia-mare sfera sovietica, e sono tutte soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’influenza sovietica ma a una crescente forma di controllo da Mosca». È il battesimo ufficiale della “cortina di ferro”, un’espressione che diventa l’efficace metafora della nuova divisione del mondo. A preconizzarla e farsene paladino è un uomo del passato, che, dopo aver condotto il suo paese alla vittoria sul nazismo, è stato dal medesimo ritenuto inadatto a governarlo in tempo di pace. I suoi indiscutibili meriti non lo hanno emendato dall’essere un conservatore di destra, che nel primo dopoguerra ha condiviso l’uso della forza contro le agitazioni operaie, mostrato simpatia verso Mussolini e avversione alla mobilitazione antifranchista.
Lo spirito del ’45. Nel dopoguerra gli inglesi aspirano a un nuovo modello di società, che trova rispondenza nel programma del partito laburista, imperniato su radicali riforme sociali, nazionalizzazioni e un sistema assistenziale (il welfare state) che si prenda cura del cittadino “dalla culla alla tomba”. Alle elezioni del luglio 1945 Churchill subisce una bruciante sconfitta e con lui la vecchia Inghilterra rigidamente classista, spazzati via da quello spirit of ’45 così ben rappresentato nell’omonimo documentario di Ken Loach.
Esautorato in patria, il vecchio leone continua a ruggire sulla scena internazionale. Lo fa a Fulton, avendo al suo fianco il presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, che Churchill ha preventivamente informato di ciò che avrebbe detto. E sarà appunto l’amministrazione americana a trarre le conseguenze degli ammonimenti dell’ex premier inglese, che tra le “cause di ansietà” mette anche il radicamento dei partiti comunisti in Francia e in Italia e il fatto che «in molti paesi, lontano dalle frontiere russe e sparse in tutto il mondo, le quinte colonne comuniste sono all’opera e lavorano in completa unità e assoluta obbedienza alle direttive che ricevono dal centro comunista».
La dottrina Truman. Con tali premesse il fronte dei paesi vincitori della guerra non ha più ragion d’essere e se ne ha conferma alla conferenza dei ministri degli Esteri dei quattro grandi – Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia – che si apre a Mosca il 10 marzo 1947. La discussione sul problema delle riparazioni belliche e sul futuro della Germania fa emergere profonde divergenze tra gli ex alleati. Due giorni dopo, il presidente degli Stati Uniti enuncia davanti al Congresso quella che sarebbe passata alla storia come “dottrina Truman”, ovvero la determinazione degli Stati Uniti a intervenire a sostegno di quei paesi la cui sicurezza sia messa a rischio da tentativi di sovversione interna o da pressioni esterne. Secondo il presidente americano la divisione del mondo è ormai chiara: da una parte ci sono gli Usa e i paesi con un sistema politico «fondato sulla volontà della maggioranza e caratterizzato da libere istituzioni, da un governo rappre-sentativo e dalla tutela della libertà individuale»; dall’altra parte ci sono l’Unione sovietica e i regimi nati dalla «volontà di una minoranza violentemente imposta alla maggioranza» e basati «sul terrore, l’oppressione, l’abolizione delle libertà personali».
La guerra fredda. L’alterità, il confronto tra le due parti degenera in “guerra fredda” quando, con una serie di mosse e contromosse, Washington e Mosca costituiscono e consolidano i loro sistemi di alleanze politico-militari. Nella folle corsa agli armamenti per mantenere l’“equilibrio del terrore”, vengono bruciate risorse che, impiegate altrimenti, avrebbero potuto migliorare le condizioni di vita di miliardi di esseri umani. Quella stagione si è conclusa il 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino, quando in tanti hanno sperato che dopo lo smantellamento di uno dei blocchi avremmo avuto un futuro di pace. È invece spuntato un nuovo nemico, il terrorismo di matrice islamica, e il mondo è precipitato in una guerra civile globale che ormai non risparmia nessuno. Settant’anni dopo il discorso di Fulton, l’Europa è di nuovo attraversata da una cortina di ferro: quella dei muri e del filo spinato, eretti col cemento del pregiudizio e dell’intolleranza, contro chi fugge dalla miseria, dalla guerra, dal terrore.