giovedì 25 Aprile 2024
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Mi chiamo Renzo, faccio l’artista. LiberEtà intervista Arbore

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Mi chiamo Renzo, faccio l’artista. LiberEtà intervista Arbore

Una personalità eclettica che ha fatto la storia della radio e della televisione, influenzando i costumi e il linguaggio degli italiani. Ma Arbore non è soltanto un uomo di spettacolo. LiberEtà ha incontrato una persona generosa e sensibile. Da oltre trent’anni è testimonial della Lega del Filo d’oro.

Renzo Arbore il 24 giugno compie 84 anni e di sé dice: «Sono un uomo fortunato e a un certo punto della mia vita ho compreso che dovevo condividere questa fortuna con gli altri. Ecco, nasce così il mio impegno per le persone sordocieche».

Non c’è bisogno di presentazioni. Bastano i titoli di alcuni programmi per capire di chi si tratta: Alto gradimento, L’altra domenica, Cari amici vicini e lontani, Quelli della notte, Indietro tutta. Trasmissioni che fanno parte della storia della radio e della televisione.

Presentatore, autore, musicista, compositore, regista, scopritore di talenti: è Renzo Arbore con le sue idee e le sue trovate, garbate, ironiche e intelligenti. Non ha rivoluzionato soltanto il modo di fare la radio e la televisione, ma ha influenzato il costume e il linguaggio del nostro paese.

Ma Arbore non è soltanto un uomo di spettacolo e di cultura. Da anni, infatti, è impegnato come testimonial della Lega del Filo d’oro, l’associazione che si occupa delle persone sordocieche. E proprio da questo suo impegno inizia questa conversazione.

Quando, come e perché nasce il suo impegno con la Lega del Filo d’oro? «Dopo il grande successo di Quelli della notte venni a sapere da un amico che ci sono persone – bambini ma anche adulti – che non vedono e non sentono e che c’era la possibilità di fare da testimonial per un’associazione che si occupava di loro. Confesso che il primo impatto è stato di shock, pensando che per persone che non vedono, non sentono e non parlano fosse impossibile una vita vivibile. Poi ho iniziato a conoscerle e allora ho scoperto, grazie agli operatori che lavorano e comunicano con loro – traducendo loro la vita attraverso il tatto e l’odorato – che si può vivere e si può anche sorridere.

Certamente si tratta di una vita complicata, ma si può vivere. Per questo ho deciso di accettare di prestare il mio volto per promuovere la Lega del Filo d’oro, e ormai è dal 1989 che lo faccio. Nel corso degli anni questa “famiglia” si è allargata, è diventata più forte grazie a tutti coloro che con il loro lavoro – il presidente, gli operatori, i tanti volontari – danno aiuto e sostegno alle persone sordocieche».

Cosa le ha restituito nel corso degli anni questa esperienza? «Mi offre una ragione in più per giustificare e apprezzare la fortuna che ho avuto di fare un lavoro che mi ha dato successo e soddisfazioni. Successo e soddisfazioni che però sarebbero soltanto egoistici se non li condividessi esprimendo la mia solidarietà nei confronti di persone meno fortunate. Ci si sente un po’ colpevoli a fare un lavoro che ti dà notorietà e successo economico se poi non condividi parte di questa fortuna con gli altri. E questo mi offre così un piccolo alibi. La Lega del Filo d’oro vive della generosità di tanti cittadini, che si concretizza con le donazioni, i lasciti testamentari, il 5X1000 dell’Irpef, quindi mettermi a disposizione degli altri e convincere qualcuno a esprimere la sua solidarietà e il suo sostegno mi gratifica molto».

Veniamo ai tempi complicati e dolorosi della pandemia Come ha vissuto questo periodo di confinamento una persona come lei abituata a stare tra il pubblico e a girare l’Italia e il mondo? «Il primo confinamento l’ho accettato più serenamente. Mi sono detto: “Ne approfitterò per mettere in ordine le mie cose, rivedere il repertorio”. Insieme a Gegè Telesforo e a Ugo Porcelli abbiamo anche fatto su Rai2 il programma Striminzitic show che, pescando cose del passato, voleva far trascorrere il tempo alle persone offrendo loro un prodotto fatto di sorrisi, anche se in quel momento c’era poco da sorridere. Questo secondo confinamento invece è stato più duro: l’età che avanza, la salute, le preoccupazioni, la perdita di tanti amici. Cerco di andare avanti perché ho il “pensare positivo”. Però è una stagione dura della vita».

Che idea ha del paese di oggi? «Il paese si è guastato molto. Ho vissuto la stagione del dopoguerra, una stagione di ricostruzione che ha avuto momenti straordinari. Poi nel corso del tempo ho visto prevalere il tornaconto personale, il successo a tutti i costi in tutti i campi, gli egoismi, il bisogno dell’arricchimento. Ormai molte cose si fanno perché è conveniente. E un tale modo di fare è diventato un po’ troppo esasperato. Ecco, in questo senso dico che il paese si è degradato».

E che dice della televisione che lei con i suoi programmi ha rivoluzionato? «Anche la Tv, che poi è lo specchio del costume del paese, non è più quella di una volta. Un tempo nell’ideare e realizzare un programma si usava la parola arte: “Facciamo una cosa artistica”, si diceva. Oggi questo modo di dire sembra scomparso dal vocabolario e si fanno cose soltanto per avere audience. Ma spesso per avere successo si superano i limiti del buon gusto, mentre il buon gusto è quello che dovremmo lasciare come esempio ai nostri figli e ai nostri nipoti. Oggi, purtroppo, il codice di riferimento è diventato avere successo».

Autore, musicista, presentatore, compositore: lei è tante cose. Ma qual è la definizione che più le fa piacere? «La definizione che prediligo è quella di artista. Nel mio biglietto da visita ho scritto –ironicamente – clarinettista jazz…». Definizione curiosa. Come mai? «Perché è così che ho iniziato. Ma mi piacerebbe essere definito un artista. Fin da bambino vedevo i pittori, i poeti, i musicisti ed era a loro che mi ispiravo. Certo ho fatto tante cose: la radio, la musica, il cinema, la televisione però ho sempre cercato di farle tenendo in mente questa parola magica: arte. So bene che oggi in molti ambienti ha perso valore e non rappresenta più il fine autentico del nostro lavoro».

Esiste un programma al quale è più legato? «Sono legato soprattutto a due programmi. Uno è Cari amici vicini e lontani, sei puntate andate in onda su Raiuno nel 1984 per celebrare i sessant’anni della radio. È stata un’esperienza preziosissima, perché mi ha dato la possibilità di tributare un omaggio ai grandi maestri. I cantanti, gli attori, i giornalisti, gli autori, i musicisti, i presentatori che erano stati gli idoli della mia adolescenza e della mia giovinezza li avevo tutti lì, vicino a me».

E il secondo programma che le è più caro? «Quelli della notte. Una trasmissione che celebrava l’amicizia. Eravamo quaranta persone legate le une alle altre. Il programma ebbe un successo straordinario e innovò davvero il modo di fare televisione perché fu un varietà improvvisato come una jam session di jazz. Con Riccardo Pazzaglia, Marisa Laurito, Nino Frassica, Maurizio Ferrini e tanti altri abbiamo inventato una nuova maniera di fare la Tv. Non si trattava di un varietà televisivo scritto e recitato come avveniva di solito, ma di un varietà spontaneo, basato sullo stare insieme allegramente. E posso dire che ancora oggi rappresenta un modello».

C’è un suo erede nella Tv di oggi, un artista in grado di innovare come ha fatto lei? «Ci sono molte persone brave, che stimo, ma non vedo un mio vero e proprio erede. Ho fatto molte cose diverse, quindi magari ci sono alcuni che possono essere miei eredi musicali, altri che possono esserlo nel varietà».

Lei ha sempre usato l’arma dell’ironia e del pensare positivo. Oggi si considera sempre un inguaribile ottimista? «Direi di sì. Nonostante i tempi difficili e dolorosi che stiamo attraversando – e speriamo finiscano presto – continuo a essere ottimista. Credo che questa lezione terribile della pandemia ci costringa a riflettere sulle cose davvero importanti della vita: la famiglia, l’amore, l’amicizia. La società italiana è diventata molto volgare, egoista, alla spasmodica ricerca del successo, poco attenta al prossimo. Ora, grazie all’emergenza sanitaria, ci stiamo finalmente preoccupando della salute dei nostri simili e siamo comprendendo che il primo valore da proteggere è la qualità della vita. Ripeto: penso che il periodo che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo offra una possibilità che dobbiamo saper sfruttare, quella di riflettere sugli aspetti importanti della vita di tutti noi».