Il primo maggio 1947 la mafia uccise donne, bambini e uomini che stavano festeggiando la riconquistata libertà. A settant’anni da quella strage la manifestazione nazionale di Cgil, Cisl e Uil.Si erano messi in marcia dalle prime ore del mattino. Uomini, donne, bambini e anziani, a dorso di mulo e sopra i carretti, la maggior parte a piedi, avevano lasciato i loro paesi – Piana degli Albanesi, San Giuseppe Iato, San Cipirello – per raggiungere la piana di Portella della Ginestra. Lì, secondo una consuetudine inaugurata all’epoca dei Fasci siciliani dal medico socialista Nicola Barbato e interrotta dal fascismo, si sarebbe celebrato il 1° maggio del 1947.
Circa duemila persone, tra uno sventolio di bandiere rosse e tricolori, attendevano che il comizio cominciasse. Avevano i volti sorridenti, perché quella era la “loro festa” e perché, dopo tanto penare, potevano finalmente aprire l’animo alla speranza.
La caduta del fascismo e il ripristino delle libertà avevano provocato la fine dei secolari privilegi di pochi e le masse contadine cominciavano a veder realizzate le loro aspirazioni. Già nell’autunno 1944, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, avevano conquistato il diritto di occupare e avere in concessione le terre incolte o mal coltivate del latifondo. Un ribaltamento dei rapporti sociali così radicale non poteva non avere ricadute sul piano politico e se ne ebbe conferma alle elezioni del 20 aprile 1947 per l’Assemblea regionale siciliana, che videro l’affermazione del Blocco del popolo. C’era dunque di che gioire, di che far festa tutti insieme, con canti e balli, il cibo e i dolci portati da casa.
Il primo oratore, Giacomo Schirò, aveva appena iniziato a parlare quando fu interrotto da un crepitio di colpi. Pochi si resero subito conto di quel che stava accadendo: molti pensarono si trattasse di mortaretti fatti esplodere intempestivamente. Davanti al sangue degli animali abbattuti e delle prime persone colpite a qualcuno tornarono in mente le oscure e minacciose parole udite in paese: «Partite cantando, tornerete piangendo». Erano infatti colpi di mitragliatrice provenienti dalle cime dei monti Cumeta e Pizzuta, da dove si dominava la grande piana di Portella e si aveva gioco facile a far fuoco su una folla inerme, colta alla sprovvista e senza alcun riparo. Al termine della sparatoria giacevano a terra undici morti e oltre cinquanta feriti.
Il movente politico. Non ci volle molto per individuare in Salvatore Giuliano e nella sua banda i responsabili della strage. Ma chi l’aveva commissionata? Chi erano i mandanti? Nessuno, a parte gli esecutori materiali, fu mai chiamato a risponderne nei tribunali. Secondo le prime indagini dei carabinieri, Giuliano aveva agito su mandato di «elementi reazionari in combutta con la mafia». Per la Cgil, che il 3 maggio proclamò uno sciopero generale, dietro l’eccidio c’era la «volontà dei latifondisti siciliani di soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori».
Di tutt’altro avviso il ministro dell’Interno, il siciliano Mario Scelba, che davanti all’Assemblea costituente se ne uscì con una singolare affermazione: «Questo non è un delitto politico, perché nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la manifestazione».
Sarà poi lo stesso Giuliano ad ammettere, con parole allusive, il movente politico della strage. Nel 1949, sentendosi abbandonato dai suoi protettori, inviò ai giornali e alla polizia una lettera per raccontare la sua verità: «Non si poteva restare indifferenti davanti all’avanzata diabolica della canea rossa, la quale, allettando con insostenibili e stolte promesse i lavoratori, ha sfruttato e si è servita del loro suffragio per fare della Sicilia un piccolo congegno da servire al funzionamento della macchina sovietica».
Era un’aperta rivendicazione del ruolo svolto per conto di ambienti e interessi spaventati dall’avanzata delle sinistre. Per riprendere il controllo della situazione, agrari, politici di destra e mafia avevano affidato a Giuliano il compito di intimidire e uccidere sindacalisti, capi lega, dirigenti dei partiti di sinistra.
La strage di Portella rappresentò il culmine ma non la fine dell’offensiva reazionaria. In un solo anno, il 1947, furono uccisi sindacalisti e politici come Accursio Miraglia, Angelo Macchiarella, Carmelo Silvia e Nicolò Azoti, incendiate le sedi di numerose leghe contadine a Monreale, Carini, Cinisi, Terrasini, Borgetto, Pioppo, Partinico, San Giuseppe Iato e San Cipirello.
Poi venne il 18 aprile 1948 con la grande avanzata della Dc che anche in Sicilia aprì la strada a una nuova stabilizzazione conservatrice. Divenuto scomodo, Giuliano venne ucciso il 5 luglio 1950 dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, che fu a sua volta avvelenato in carcere il 9 febbraio 1954. Qualche giorno prima aveva annunciato clamorose rivelazioni sulla strage di Portella.