venerdì 26 Aprile 2024
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Letture di primavera in regalo. L’azzurro rubato. 1° puntata

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Letture di primavera in regalo. L’azzurro rubato. 1° puntata
Foto di Ruvim da Pexels

LiberEtà omaggia i propri lettori pubblicando sul sito il libro di Domenico Aleotti, terzo classificato del Premio letterario di LiberEtà 2020, in sei puntate. Ogni mercoledì vi porteremo in una Maremma incantata tra ex minatori partigiani e fotografi di moda. Un mondo fatto di duro lavoro, saperi preziosi, lotte e conquiste. Storie di piccoli e grandi amori, amicizie, avventure e passioni politiche. Un viaggio pieno di emozioni. 

 



La storia
Un grande fotografo di moda decide di realizzare un servizio fotografico sulle colline della Maremma. Ma mentre cerca di catturare gli sguardi più espressivi di ragazze e ragazzi bellissimi, viene colpito dagli occhi azzurri di un vecchio della zona, un minatore che ha passato gran parte della sua vita lavorando sotto terra e che ha combattuto durante la Resistenza. Aleotti ci racconta un mondo perduto fatto di duro lavoro, saperi preziosi, lotte e conquiste.  Un viaggio nel passato denso e pieno di emozioni.

L’autore
Nato a Genova nel 1942. Ha lavorato per una vita come sceneggiatore cinematografico anche per la grande casa di produzione Gaumont guidata Renzo Rossellini e per importanti registi di fama internazionale. Con Rossellini ha partecipato alla fondazione di Radio Città Futura negli anni Settanta. Ha lavorato con Franca Rame e Dario Fo. Da trentacinque anni vive in Maremma. Da sempre motociclista, oggi gira in Vespa. Ha una biblioteca di più di ottomila volumi. È iscritto allo Spi Cgil, scrive racconti e collabora con Il Tirreno.

 



L’AZZURRO RUBATO 

1° PUNTATA 


Quando la luce del sole scendeva, creando macchie d’ombra tra i picchi e le rocce, lo vedevi camminare dritto e costante nel passo, né curvo né lento, sul sentiero che dal paese portava a un piccolo pianoro tra le rocce. Sembrava andasse a un appuntamento con l’ultimo sole. Si sedeva su un sasso piano. Da lì si apriva lo sguardo verso il maestoso spettacolo del tramonto su un furtivo mare, laggiù, nascosto tra le valli.

Ubaldo per tutti nel paese era Baldo. Ex minatore da anni in pensione. C’era chi diceva che avesse più di ottant’anni. Baldo non smentiva e andava fiero della sua camminata tra le rocce.

Fu lassù che un giorno lo trovò un fotografo venuto da lontano. Era stato attratto da quel paesaggio così strano, così raro in terra toscana, un impasto di case e rocce. Il fotografo era accompagnato da un gruppo molto vivace di ragazzi, una macchia colorata nel grigio di quello scenario. Salivano insieme verso le rocce dove stava seduto Baldo, che si girò lentamente incuriosito da quella vociante comitiva, ma il suo interesse presto si spense. Si rianimò poco dopo all’apparire di uno splendido cane tenuto al guinzaglio da una ragazza. Passando davanti a Baldo, il cane lo fissò curioso. Ci fu come un’intesa di sguardi e il particolare non sfuggì al fotografo che in un attimo catturò quell’incontro con un furtivo click.

L’uomo che aveva scattato la foto era un professionista famoso, non solo per le astute immagini di moda. Era stato anche un inviato su vari fronti di guerra, insomma uno dei fotografi più affermati del momento.

Incuriosito dalla figura dell’anziano, il fotografo si avvicinò e con gentilezza salutò: «Buona sera, si gode il tramonto?». Baldo, preso alla sprovvista, si alzò come intimidito. «No, no, non si disturbi», aggiunse il fotografo, «noi andremo più avanti, non le daremo fastidio». Baldo tornò a sedersi cercando con lo sguardo il cane.

Fabrizio, così si chiamava il fotografo, riunì di nuovo il gruppo, parlò con una donna giovane, la segretaria della troupe, che indossava un Tommy jeans. Nella pettorina portava appesi gli occhiali ma anche penne, pennarelli, e varie chincaglierie utili alla comunicazione. «Senti», le disse distrattamente Fabrizio, «che ne dici se coinvolgiamo nel set quel vecchio? Prova a sentire se accetta». La donna apparve sorpresa: «Cosa c’entra su un set di giovani?». Fabrizio le passò confidenzialmente un braccio intorno al collo e portandosi vicino all’orecchio le sussurrò: «È incredibile, ha uno sguardo bellissimo, oltre l’azzurro, ricorda l’indaco intenso di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova».

La donna conosceva da anni il geniale fotografo, raramente sbagliava nella scelta delle persone.

La segretaria si incamminò e si avvicinò all’anziano. «Buona sera, la disturbo?». Ancora una volta Baldo si alzò. «Non si scomodi, anzi posso sedermi accanto a lei?». Poi con civetteria aggiunse: «Il nostro fotografo, che è quel signore biondo con il cappellino, vorrebbe farle delle fotografie assieme al gruppo dei ragazzi, naturalmente sarà pagato per il disturbo». Baldo fece un piccolo gesto, a significare il suo stupore. Lui la paga la prendeva per stare ore nel ventre della terra, in miniera. Scrollò il capo con fare incredulo.

Il fotografo nel frattempo si era avvicinato, la segretaria si rivolse a lui dicendogli che il signore interpellato era d’accordo, poi rivolgendosi all’anziano disse: «A proposito, lei è il signor?». Baldo rispose, come faceva all’appello delle squadre prima di scendere in miniera, «Bartalucci Ubaldo» e ripetè, «Bartalucci Ubaldo». Petulante, la segretaria disse: «Allora signor Bertolucci…». «Bartalucci», corresse Ubaldo. «Va bene, Bartalucci, la consegno al nostro maestro».

Fabrizio, che aveva seguito la conversazione, tese la mano e si presentò a Ubaldo: «Signor Bartalucci, sono contento di conoscerla, mi chiamo Fabrizio Melli», continuò, sedendosi accanto all’anziano. «Le dico perché la voglio nelle mie fotografie. Mi ha colpito il suo sguardo, il colore così intenso, un velo tra l’azzurro e un acceso blu».

Baldo buttò la testa all’indietro, come a volte fanno certi vecchi e, dondolando leggermente il capo, si aprì a un malinconico sorriso. «Eh, i miei occhi, il mio azzurro, sapesse…». «Cosa?», chiese stupito Fabrizio. «Sono nato così», continuò Baldo, «però venticinque anni di miniera, con il gas acceso nella lampada dell’elmetto, me li hanno resi più chiari. Ora ci vedo poco, come se tutto davanti a me si fosse schiarito, la troppa luce mi fa star male e vengo a prendere un po’ di sole al tramonto, lo chiamo il mio sole storto, così mi riprendo, negli ultimi raggi, l’azzurro che la miniera mi ha rubato».


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