La variabile lavoro secondo il regista Stéphane Brizé

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Thierry, Laurent, Philippe: un operaio, un sindacalista e un manager. Sono i protagonisti dei film del regista francese, tre tipi umani differenti schiacciati però allo stesso modo dalla spietata logica della macchina capitalista

Un tema complesso e mai scontato. Pochi registi, negli ultimi anni, sono stati in grado di affrontare il mai scontato tema del lavoro con l’intelligenza e la profondità del francese Stéphane Brizé. Il suo cinema scava nelle pieghe delle più assurde contraddizioni sociali, partendo da punti di vista molto precisi e da situazioni assolutamente ordinarie, seguendo la lezione dei grandi cineasti dell’impegno civile, su tutti Ken Loach e i fratelli Dardenne. Niente è insolito nelle sue storie, così dure e prive di sentimentalismo; niente è lasciato al caso, a cominciare dalla psicologia e dalla sensibilità dei personaggi, messi a dura prova dalle difficoltà cui sono costretti.

Crisi esistenziali. Al lavoro è dedicata sicuramente la parte migliore della sua filmografia (con tutto il rispetto per altri, ottimi film). Nel 2015 esce nelle sale La legge del mercato, cui fanno seguito In guerra (2018) e Un altro mondo (2021). Si tratta di una trilogia (reperibile sulla piattaforma Mubi) che affronta la questione attraverso tre narrazioni tra loro scollegate. Questa varietà si spiega sia con la volontà di prendere di petto, di volta in volta, un problema specifico, sia con l’intenzione di offrire un quadro più completo possibile delle dinamiche lavorative nella loro, a tratti perversa, complessità. Nel primo film, il protagonista (Thierry) è un uomo che lotta contro la disoccupazione, dovendo far fronte alle spese e alla necessità di prendersi cura, insieme con la moglie, del figlio disabile. Nel secondo, lo sguardo poggia su un sindacalista (Laurent) e sulla sua drammatica lotta per difendere i lavoratori di uno stabilimento che sta per chiudere (in piena negazione di quanto promesso dalla dirigenza). Nel terzo, l’ambientazione si trasferisce proprio negli uffici dirigenziali, dove Philippe, manager di un’azienda, si trova stritolato tra un matrimonio che finisce, anche a causa dei troppi sacrifici imposti dalla carriera, e le politiche aziendali che mettono sempre più in crisi la sua posizione. In tutti e tre il protagonista ha il volto del bravissimo Vincent Lindon.

Destini comuni. Thierry, Laurent e Philippe – operaio, sindacalista e dirigente – rappresentano simbolicamente tre tipi umani diversamente massacrati dalla macchina capitalista. Particolarmente intensa la vicenda del primo, che nel disperato tentativo di ottenere un impiego è costretto a umiliazioni e prese in giro costanti, a essere masticato dalla scelleratezza di una società che rende difficoltoso il raggiungimento di quello che dovrebbe essere un diritto come il posto di lavoro. Ridicoli seminari di preparazione insegnano a curare feticisticamente il curriculum e danno consigli su come porsi a livello di abbigliamento e postura durante un colloquio. Addirittura, Thierry è costretto a frequentare un corso professionalizzante che alla fine non garantirà nemmeno l’assunzione (perché l’azienda esige esperienza, non un attestato, e pertanto il corso si rivela una truffa). E una volta trovato un impiego, ecco sopraggiungere altre problematiche, direttamente legate alla propria coscienza.

L’umanità dei personaggi. E quest’ultimo aspetto non è davvero secondario, perché se c’è qualcosa che rende grande Brizé non è solo l’esplicita denuncia di un mondo a tratti sinistro, ma soprattutto la fragile, gigantesca umanità dei suoi personaggi, obbligati non solo a fare il possibile per andare avanti, ma anche a doversi confrontare con gli affetti e con le altre persone in un contesto che sembra inquinare e rendere difficili anche i gesti più semplici. E denunciare lo stato delle cose è solo il primo passo per continuare a lottare.