Case di comunità, la riforma è a rischio

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Dopo l’emergenza provocata dalla pandemia, le promesse di un intervento strutturale di riorganizzazione dei servizi sanitari nel territorio ci avevano fatto ben sperare. In realtà, sembra che le cose non stiano andando per il verso giusto

Nelle settimane più buie della pandemia da più parti era stato promesso che, dal punto di vista sanitario, mai più il territorio sarebbe stato abbandonato al proprio destino. Erano stati così concepiti case e ospedali di comunità come capisaldi di una riforma della sanità territoriale, anello di congiunzione tra i medici di base e gli ospedali presi d’assalto. Alle belle parole erano seguiti i fatti. Dei sette miliardi offerti dall’Europa all’Italia tramite il Piano nazionale di rilancio e resilienza (Pnrr), ben due miliardi sono stati destinati alla realizzazione di 1.350 case di comunità e un miliardo per quattrocento ospedali di comunità, da realizzare entro la prima metà del 2026. Tutto bene allora? Non proprio. A giudicare dagli allarmi lanciati dalla Corte dei conti, dall’ufficio parlamentare di bilancio e dagli esperti, le cose non stanno andando per il verso giusto e le case di comunità (ma anche gli ospedali di comunità), vero fulcro della riforma, rischiano di rimanere sulla carta tra ritardi, mancanza di risorse e l’opposizione di una parte dei medici di base.

Che cosa sono. Aperte ventiquattro ore al giorno, sette giorni a settimana, le case di comunità saranno il luogo di prossimità dove i cittadini potranno consultare medici di medicina generale, pediatri, specialisti, ma anche psicologi, ostetrici, professionisti dell’area della prevenzione, della riabilitazione, e assistenti sociali sia per le cure primarie sia per servizi diagnostici di base. «Medici di base e specialisti dovrebbero lavorare in équipe, e le case di comunità rappresentare un luogo di convergenza tra servizi sanitari e l’assistenza sociale attraverso il punto unico di ascolto», sottolinea Franco Pesaresi, direttore dell’azienda servizi alla persona di Jesi (Ancona) ed esperto di questi temi. Per Stefano Cecconi, del dipartimento sanità dello Spi Cgil, «sono un tassello fondamentale per portare il welfare più vicino alle persone e ai loro luoghi di vita, ma anche un luogo dove prendere in carico le persone prima che sopraggiungano malattie croniche o acute da curare in ospedale». Le case di comunità possono essere considerate l’evoluzione delle case della salute. La Finanziaria del 2007 stanziò dieci milioni di euro per la costruzione di strutture polivalenti in grado di offrire in uno stesso spazio fisico l’insieme delle prestazioni sociosanitarie. Nelle intenzioni del legislatore le case della salute avrebbero dovuto essere ben più di un edificio: uno sportello unico di accesso per la presa in carico del paziente e un nuovo modello assistenziale e organizzativo per raccogliere in sé la cura dei malati cronici e le prestazioni sanitarie non acute che pronto soccorso e ospedali non possono assorbire.

Una riforma incompiuta. Ma secondo la mappatura realizzata dal servizio studi della Camera, nel 30 per cento delle Regioni le case della salute non hanno mai visto la luce. In tutto il territorio nazionale ne sono state istituite soltanto 493, con in testa Emilia Romagna (130), Veneto (77), Toscana (76). Va peggio con gli ospedali di comunità, progettati per le degenze brevi e per i pazienti stabili dal punto di vista clinico con bisogno di sorveglianza infermieristica continuativa e anche notturna. Sono in tutto 163, per un totale di 3.163 posti letto e nella metà delle regioni non ve n’è traccia. Cosa qualificherà le case di comunità rispetto al precedente esperimento? «Sulla carta un approccio che punta alla tutela della salute nel suo complesso – spiega Daniela Bortolotti, responsabile sanità dello Spi Cgil Emilia Romagna –, attraverso attività di prevenzione della cronicità e attenzione agli stili di vita con il coinvolgimento delle associazioni di volontariato, delle parti sociali e del terzo settore, ma soprattutto, l’integrazione tra prestazioni sociali e sanitarie che diventa obbligatoria, come sancito dal decreto ministeriale 77/2022».

Progetti in ritardo. Oltre alla differente capacità dei territori di assimilare l’ambizioso progetto di riforma, gli ostacoli alla realizzazione di case di comunità efficienti non sono pochi. Innanzitutto, i tempi. Il primo allarme arriva dalla Corte dei conti, che evidenzia come il ministero della Salute non riuscirà a rispettare la data del 31 marzo per l’approvazione di progetti idonei all’indizione delle gare per costruire le case di comunità (a quella data in molti casi mancavano addirittura i progetti definitivi ed esecutivi delle nuove strutture), con il rischio che il termine sia spostato al 30 giugno. Il timore dei magistrati è che le esitazioni iniziali inneschino ritardi a catena tali da invalidare l’intera operazione.

Pochi soldi. Il secondo campanello d’allarme è arrivato a metà marzo dall’ufficio parlamentare di bilancio (Upb): ci sono i soldi per costruire immobili e infrastrutture ma mancano «le risorse correnti per rendere operative le nuove strutture di assistenza sanitaria territoriale». L’ufficio fa notare che quando le risorse del Pnrr saranno esaurite, «servirà assicurare al Servizio sanitario nazionale più di un miliardo per dare continuità ai servizi di assistenza domiciliare e circa 239 milioni solo per il personale degli ospedali di comunità». Soprattutto ora che la programmazione finanziaria per il triennio iniziato nel 2023 vede un ridimensionamento della spesa per la sanità pubblica.

Manca il personale. Terza nota dolente: il personale. La difficoltà di reperire i dipendenti e la perdita di attrattività del Servizio sanitario nazionale costituiscono «un’emergenza, soprattutto per quanto riguarda gli infermieri e alcune categorie di medici». Andrebbe affrontata – dicono i tecnici dell’ufficio parlamentare di bilancio – «con un’adeguata programmazione del personale, l’incremento dell’offerta formativa, l’adozione di misure volte a restituire attrattività al lavoro nel Ssn in termini di riconoscimento sociale ed economico». Ma su questo versante, non vi sono novità di rilievo. I due miliardi di euro stanziati nell’ultima Finanziaria dal governo sono serviti a sterilizzare gli aumenti della bolletta elettrica (1,6 miliardi), non certo per assumere nuovo personale o aumentare gli stipendi di medici e infermieri. «La possibilità per le Regioni di derogare al tetto di spesa per il personale – osserva Cecconi – serve a poco se non si finanzia il fondo sanitario nazionale per almeno due miliardi. Per non parlare delle risorse che servirebbero per portare i servizi sociali all’interno delle case di comunità. Ma da questo orecchio il governo non ci sente. Il rischio concreto è che senza personale le case di comunità rimangano scatole vuote».

Le resistenze dei medici di base. Per il presidente dell’ordine dei medici, Filippo Anelli, «la vera sfida delle case di comunità è passare dall’isolamento in cui lavorano i medici di famiglia a un lavoro in team che offra prestazioni maggiori e di qualità. Ma senza infermieri, operatori sociosanitari, psicologi, terapisti, impiegati amministrativi, allora facciamo solo chiacchiere. Non basta spostare i medici dai loro studi alle case di comunità per implementare la riforma». L’Upb sottolinea come «il coinvolgimento dei medici di medicina generale nell’attuazione della riforma richiederebbe una chiara regolazione delle forme e dei modi della loro partecipazione alle varie strutture». Tradotto: servono accordi con regole e soldi veri. Ma anche risolti questi problemi, resterebbe ancora da convincere una parte dei medici di famiglia, restii a lasciare i loro studi per le case di comunità. Come se la lezione del Covid non fosse bastata a farci intendere la necessità non più rinviabile di una sanità territoriale che faccia sistema e che funzioni.

Questo articolo è uscito sul numero di maggio di LiberEtà. Per abbonarti alla nostra rivista clicca qui