La valigia dello studente

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Da più di un secolo e mezzo viviamo sotto lo stesso tetto nazionale. Ma oggi sembriamo separati in casa. In un paese normale non dovrebbe fare la differenza nascere a Treviso o a Catania. Da Nord a Sud dovremmo poter crescere e studiare in condizioni paritarie, avere gli stessi asili, usufruire delle mense in tutte le scuole, avere accesso a servizi sanitari di uguale qualità. Invece, nascere e abitare al Sud o al Nord può significare essere destinati a una cittadinanza differenziata: una di serie A con standard alti di servizi; e una di serie B con aspettative, servizi e diritti dimezzati. E questo è inaccettabile.

Ingiustizia inaccettabile. L’Italia sta vivendo una delle più grandi ingiustizie che un territorio possa subire: l’emigrazione di massa dei propri giovani più istruiti. L’allarme arriva dalla Svimez, l’associazione nata nel 1946 su iniziativa di economisti, politici e banchieri illuminati uniti dall’idea di riunificare il paese. Tra il 2001 e il 2021, quasi 460.000 laureati si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord, con una perdita netta di circa trecentomila unità. All’inizio del nuovo millennio era solo il 9 per cento dei giovani laureati e diplomati a fare le valigie; oggi sono oltre il 34 per cento. Una vera e propria emorragia: nel 2022, per la prima volta nella storia delle migrazioni interne italiane, il numero di laureati sul totale degli emigrati meridionali ha superato quello di chi se ne va senza un titolo di studio in tasca.

Lavoro povero. Uno studente meridionale su quattro sceglie le università settentrionali, per la «cronica debolezza della domanda di lavoro» nei territori di provenienza, e questo comporta un costo di tre miliardi l’anno per il nostro Mezzogiorno. Ma che futuro può avere un territorio che si vede portare via le sue energie migliori? Una delle principali cause dell’abbandono del Sud, rileva Svimez, è il lavoro troppo povero che non offre prospettive accettabili a chi ha studiato. Dalla Campania in giù il lavoro a termine tocca livelli patologici. Gli occupati intermittenti sul totale dei dipendenti sono pari al 22,9 per cento al Sud contro il 14,7 del Centro-Nord. Nel Mezzogiorno si resta precari più a lungo: quasi un lavoratore a termine su quattro è in questa condizione da più di cinque anni, il doppio rispetto al resto del paese. Secondo le stime Svimez, dei circa tre milioni di lavoratori che percepiscono meno di nove euro all’ora, un milione risiedono nel Mezzogiorno (pari a un quarto degli occupati) e circa due milioni nelle regioni del Centro- Nord (15,9 per cento degli occupati). Del resto, perché un giovane laureato dovrebbe rimanere nella sua città con la prospettiva di guadagnare poco più del reddito di cittadinanza? Nel periodo successivo allo shock del Covid il Mezzogiorno ha fatto segnare una lieve crescita occupazionale, concentrata però nei settori peggio pagati e meno qualificati: costruzioni e turismo. Per questa ragione le retribuzioni tardano a recuperare il potere d’acquisto perduto. Nel 2022, rileva Svimez, le retribuzioni lorde in termini reali sono di ben dodici punti inferiori a quelle del 2008 (contro i tre punti del Nord).

Al Sud si vive meglio… Si sente spesso questa frase. Sì, certo, la vecchia storia: buona cucina, sole, mare, e magari anche il mandolino. Il guaio è che l’effetto benefico di questi fattori non funziona più. Al Sud oggi si vive in media un anno e sette mesi di meno che al Nord. Nel 2021 la speranza di vita è scesa a 81,3 anni, con una riduzione di sei mesi rispetto al 2020 che si aggiungono ai sette mesi già persi l’anno prima, mentre al Nord si attesta a 82,9, con un recupero di quasi un anno rispetto al 2020. Il fatto è che al Sud, spiega l’Istat, quasi la metà dei cittadini rinuncia alle cure, contro l’11,3 per cento del Nord Est, il 18,5 del Nord Ovest e il 21,4 del Centro. Anche per curarsi, non solo per lavorare, si è costretti a emigrare. I viaggi della speranza costano un sacco di soldi che pochi possono permettersi. Ogni anno le Regioni del Sud devono rimborsare 14 miliardi a quelle del Nord per i ricoveri dei propri cittadini.

Fallimento storico. Questo divario tra Nord e Sud è il più grave fallimento della storia unitaria, sottolinea Isaia Sales, uno dei massimi esperti di questione meridionale. Il Pil pro capite dell’intero Nord è quasi il doppio di quello del Meridione. C’è un baratro che divide l’economia del Nord da quella del Sud. La cosa grave è che questo divario ha raggiunto un record storico nella quasi totale indifferenza della politica italiana. Come è stato possibile? Se si controllano tutti i dati a disposizione – scrive Sales – si può verificare che in un ventennio sono stati nettamente modificati i parametri di ripartizione delle risorse per opere pubbliche, sanità, scuola, università, incentivi alle imprese, attribuzione della spesa pubblica per abitante. Anche il livello di tassazione locale si è invertito. Si è trattato, insomma, di un silenzioso massiccio trasferimento di risorse dallo Stato centrale verso il Centro-Nord, accompagnato (e giustificato) dalla più massiccia propaganda mai conosciuta nella storia italiana sui difetti morali e civili dei meridionali.

Solidarietà perduta. Eppure, la storia insegna cose diverse. Gli ideali della Resistenza all’indomani della Liberazione portarono alla scelta di ricostruire il paese puntando sulla sua unificazione. Nei primi anni Settanta i lavoratori del Nord arrivarono a scioperare per gli investimenti al Sud. E i lavoratori meridionali ripagarono questo sforzo di solidarietà concorrendo allo sviluppo economico di tutta l’Italia. Senza il contributo dei tanti emigrati meridionali che andarono a lavorare nelle fabbriche del Nord, l’Italia sarebbe rimasta una piccola patria, ininfluente sullo scenario internazionale, come tutto sommato lo era stata nel corso della sua storia precedente, e come è ridiventata oggi.

I castelli di carta. L’Italia ha bisogno di una strategia che inglobi il Sud nello sviluppo nazionale. Ma se Giorgia Meloni pensa che la strada sia quella del presidenzialismo e dell’autonomia differenziata, compie un tragico errore. Questo “patriottismo all’amatriciana” ci porterà a un nuovo feudalesimo con un re travicello a Roma contornato da vassalli sempre più avidi nell’accaparrarsi le poche risorse esistenti, differenziando ulteriormente i territori che dispongono o meno dei servizi elementari – scuola, asili, sanità, trasporti. La cancellazione del reddito di cittadinanza è figlia di questa ideologia un po’ fascistella e un po’ provinciale, che genera mostri come il fisco differenziato tra lavoratori dipendenti e autonomi, l’ulteriore precarizzazione del lavoro, i tagli del Pnrr a Napoli, Bari, Palermo, alla sanità, all’Ilva di Taranto. Risultati di queste scelte: lo spezzettamento del paese in tante piccole patrie e meno diritti per i più deboli. Si possono avere a disposizione tutte le fanfare comunicative di questo mondo (Rai, Mediaset, giornali), ma prima o poi qualcuno dal fondo della sala comincerà a fischiettare Bella ciao. E allora i castelli di carta della regina cadranno rovinosamente.

L’articolo è stato pubblicato sul numero di ottobre 2023 del nostro mensile. Per abbonarti clicca qui