La scuola? Ha sempre meno studenti

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Nel nostro paese gli allievi diminuiscono ogni anno in maniera vistosa. Solo quest’anno mancano 300 mila studenti, secondo il ministro Bianchi. Conseguenza del calo demografico e delle trasformazioni sociali. Come possiamo invertire questa tendenza?

Riaprono le scuole e ricomincia l’anno accademico. Si nutrono preoccupazioni per un nuovo assalto del Covid e per le sue pesanti ripercussioni sull’andamento della vita scolastica. Ma si affacciano preoccupazioni anche di più lungo respiro relative al futuro della formazione nel nostro paese. Nei prossimi dieci anni il sistema scolastico italiano avrà 1,4 milioni di studenti in meno. Solo quest’anno, ha affermato il ministro Patrizio Bianchi, mancano all’appello 300 mila studenti.

Secondo l’Istat, da 7,4 milioni di studenti, si perderanno ogni anno circa 110-120 mila alunni, fino ad arrivare ai sei milioni del 2033-34. I dati Istat vengono utilizzati dal ministro dell’Istruzione per giustificare la contrazione degli investimenti in istruzione. Il Documento di economia e finanza del 2022, infatti, ha ridotto i finanziamenti per la scuola: se nel budget 2021-2023 erano previsti investimenti per il 4 per cento del Pil, nel Def 2022 la percentuale si è ridotta al 3,5. Secondo Bianchi, paradossalmente, queste percentuali vanno lette come un segnale del fatto che il governo vuole investire in istruzione, perché a fronte del calo demografico, la contrazione avrebbe dovuto essere ancora più evidente. Con la diminuzione degli alunni, infatti, il corpo docente, che varia a seconda del numero di studenti, passerà dalle attuali 684 mila cattedre alle 558 mila del 2033, con una riduzione di circa dieci-dodicimila posti l’anno. Ma il ministro Bianchi ha più volte rassicurato che, fino al 2026, gli organici rimarranno invariati, e solo dopo cominceranno a ridursi.

Cambiamenti sociali e demografici. Secondo il ministro, quindi, tra pochi anni il problema principale della scuola non saranno le cosiddette classi pollaio, che impediscono di realizzare il modello educativo inclusivo proposto dal nuovo Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ma, al contrario, il mondo della scuola sarà la prima sentinella di un cambiamento sociale e demografico sempre più urgente, con classi vuote e sezioni accorpate, specie in alcuni comuni montani o meridionali. Nella scuola dell’infanzia, le sezioni devono avere un minimo di 18 alunni e un massimo di 26, mentre nella scuola primaria il minimo si abbassa a 15 alunni, con l’eccezione dei comuni di montagna e piccole isole, dove si possono costituire classi anche con dieci allievi. Nella scuola media, le sezioni di primo grado sono costituite con un minimo di 18 e un massimo di 27. Le sezioni della scuola secondaria superiore, invece, sono costituite con un numero minimo di 27 alunni. Il ridimensionamento delle scuole e la riduzione di investimenti in istruzione testimoniano i pochi sforzi della politica verso un settore che rappresenta non soltanto la base della formazione del cittadino, ma quella dell’intera società. La stessa denatalità, infatti, se è il segno di un cambio dei tempi e dei valori della nostra società, è anche in parte connessa al malfunzionamento del sistema di welfare e istruzione, che non garantisce sufficienti asili nido, congedi parentali (anche e soprattutto ai padri) e incentivi che possano facilitare la decisione di far nascere e crescere un figlio.

Pochi laureati. Gli effetti dei pochi investimenti nella formazione sono visibili anche al livello di istruzione terziaria: l’Italia è penultima in Europa per percentuale di laureati. Secondo i dati di Eurostat, nella fascia tra i 25 e i 34 anni, nel 2020, solo il 29 per cento dei giovani aveva raggiunto la laurea. Peggio ha fatto solo la Romania con il 25 per cento di laureati, a fronte di una media europea del 41 per cento. In testa troviamo Lussemburgo (61%), seguito da Irlanda e Cipro (entrambi 58%), Lituania (56%) e Paesi Bassi (52%). L’ultimo rapporto Almalaurea, pubblicato a giugno del 2022, non ha rilevato un’inversione di tendenza: le immatricolazioni hanno registrato un calo del 3 per cento rispetto al 2020-2021. Le flessioni sono state registrate in tutte le zone d’Italia (1 per cento al Nord, 3 al Centro, 5 per cento al Sud), con distinzioni però a livello di ambiti disciplinari: rispetto al 2003 crescono del 14 per cento le materie cosiddette Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), mentre l’area artistico-letteraria e l’area economica, giuridica e sociale sono ancora al di sotto della quota di immatricolati del 2003-04 (rispettivamente -11 e -15%).

Squilibri territoriali. I dati di Almalaurea evidenziano anche un forte squilibrio a livello territoriale: la quasi totalità dei laureati che si sono diplomati al Nord, ha scelto un ateneo del Nord (96,7%). I laureati del Centro rimangono al Centro nell’86,8 per cento dei casi; l’altro 10,7 ha optato per atenei del Nord. Mentre, per i giovani del Mezzogiorno, il fenomeno migratorio assume proporzioni considerevoli: il 28 per cento decide di conseguire la laurea in atenei del Centro e del Nord. Le classifiche universitarie internazionali incentivano questo fenomeno. Suddividendo gli atenei in fasce di serie A e di serie B sulla base di parametri come la reputazione accademica e le pubblicazioni scientifiche, tendono a incentivare la creazione di grandi poli di qualità a discapito di singoli centri di eccellenza a seconda delle discipline. Lo ha sottolineato anche la ministra dell’Università, Maria Cristina Messa: «Sul rapporto tra personale docente e amministrativo e studenti, che sappiamo essere in Italia decisamente più alto rispetto agli altri paesi, abbiamo da poco lanciato i piani straordinari di reclutamento che consentiranno di assumere, oltre al turn over, ogni anno almeno 2.600 persone. Con i fondi per l’edilizia universitaria, anche del Pnrr, si miglioreranno le strutture, i laboratori, le aule».

(Tratto dal numero di settembre di LiberEtà)