La doppia morale del governo sui migranti

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Per il governo, fermare gli sbarchi è una priorità che ripropone in tutti i consessi internazionali. Intanto, con il decreto Cutro, da un lato indebolisce l’accoglienza dei rifugiati, dall’altra alza le quote dei migranti economici per fare un favore agli imprenditori.  Parla il sociologo Maurizio Ambrosini

Sull’immigrazione il governo sbaglia: non vi è nessuna emergenza e con il cosiddetto “decreto Cutro” non risponde alle morti in mare. Ma «restringendo i permessi di protezione speciale, in vista di una loro abolizione, si prepara a gettare per strada migliaia di persone che hanno imparato l’italiano, frequentato corsi e trovato un lavoro, ma che non rientrano nel diritto di asilo». Maurizio Ambrosini, sociologo dell’università di Milano e grande esperto di migrazioni, è preoccupato della stretta impressa dall’esecutivo. E censura severamente la “doppia morale” con la quale la compagine governativa e le forze di maggioranza affrontano i processi migratori nel Mediterraneo.

Professore, iniziamo spiegando che cosa intende per doppia morale?

«Il decreto è studiato per rispondere alle pressioni dei datori di lavoro, stretti tra carenza di manodopera e procedure bizantine per i nuovi ingressi e va in una direzione diversa dalla protezione dei profughi. La vera novità del provvedimento è l’innalzamento delle quote del decreto flussi. Non si parla di numeri ma di procedure più rapide. Anche ammesso che vada tutto bene, ci sono due problemi: innanzitutto i flussi servono a mettere in regola persone che sono già qui, difficile che un datore di lavoro sia disposto ad assumere persone che non ha mai visto né conosciuto. Il secondo problema ha a che fare con le relazioni internazionali: le quote si danno ai paesi amici con i quali l’Italia intrattiene buoni rapporti, non a paesi ritenuti ostili come Afghanistan o Siria. Rimane aperto il problema drammatico di proteggere quelli che scappano da guerre e persecuzioni. Insomma, c’è una maggiore apertura per quelli che prima venivano in modo sprezzante definiti “migranti economici”, ma è buio pesto sui diritti umani».

Cosa pensa dello stato d’emergenza dichiarato dal governo?

«Che non vi è alcuna emergenza. Pur considerando i soli sbarchi, triplicati dall’inizio dell’anno, parliamo di cifre simili agli arrivi registrati nel 2015, nel 2016, nel 2017. Nulla di inedito o di eccezionale. La propaganda governativa secondo cui siamo il campo profughi d’Europa non risponde a verità. È un falso. Il ministro dell’Interno ha posto l’accento sulla difficoltà di gestire una mole di arrivi di queste proporzioni in una piccola isola come Lampedusa, ma forse servirebbero più risorse e una migliore organizzazione dei trasporti verso i centri di accoglienza per fronteggiare il problema. Vedo piuttosto una coazione a ripetere: di fronte a un fenomeno che si verifica da anni con numeri altalenanti, preferiamo parlare di emergenza e di soluzioni straordinarie che scavalcano le normali procedure».

Il governo ha motivato il superamento della protezione speciale, sostenendo che esiste solo da noi.

«In realtà esiste anche in altri paesi con accezioni e nomi diversi. In venti Stati secondo Magistratura democratica, diciotto secondo una classificazione del quotidiano la Repubblica. È una forma più leggera e flessibile di protezione dei rifugiati rispetto al diritto di asilo, che si dà in modo discrezionale a persone che non possono dimostrare di essere scappate per una guerra o perché perseguitate, ma che hanno situazioni personali particolari (donne incinte, persone malate) o hanno intrapreso percorsi di integrazione qui in Italia. La quasi abolizione della protezione speciale comporterà che persone che avevano trovato un lavoro, si troveranno in mezzo a una strada. Ma dato che le espulsioni sono difficili e costose, queste persone rimarranno sul territorio, alimentando, se va bene, l’economia informale, poi la mendicità e nei casi peggiori le reti criminali. In ogni caso gli esiti di questa stretta saranno negativi per la qualità della convivenza, per la sicurezza delle città, per la coesione sociale. Il contrario della sicurezza che si vorrebbe ottenere».

Tutto questo mentre si indeboliscono le reti di accoglienza…

«Dai decreti Salvini in poi i centri di accoglienza straordinaria (Cas) che dovevano avere in origine una funzione sussidiaria rispetto all’accoglienza dei comuni, hanno visto tagliare diarie, corsi di italiano, progetti di avviamento al lavoro, assistenza medica. Molte organizzazioni, soprattutto quelle più serie, si sono ritirate o hanno ridimensionato il loro impegno. In compenso, la legge rafforza i Cpr, i centri detentivi per espellere gli irregolari».

Esiste ed è praticabile un modello alternativo alla pura criminalizzazione dell’immigrazione?

«Abbiamo bisogno di una politica migratoria più razionale e pragmatica, ma anche più articolata. Ingigantendo i numeri e cavalcando la logica dell’emergenza non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo farci domande del tipo: vogliamo medici? Vogliamo assistenti familiari? Anche di fronte agli arrivi spontanei di persone in fuga, potremmo attivare corridoi umanitari e reinsediamenti sulla base delle disponibilità dei paesi che accolgono. Sappiamo che emigra di più chi è più istruito, è irrazionale non sfruttare con intelligenza competenze che potrebbero essere messe a servizio del paese di accoglienza. Sul modello di quanto si è fatto per i profughi ucraini, sarebbe raccomandabile una libera mobilità dei profughi all’interno delle frontiere europee, sostenendo maggiormente i paesi che si troveranno ad accoglierne di più».

L’idea di Mimmo Lucano di insediare immigrati in un’area spopolata del Sud può ancora essere un modello per l’accoglienza diffusa in Italia?

«Il caso Riace ha avuto risalto mediatico, ma in Calabria ci sono altri piccoli comuni che hanno accolto rifugiati, con impegno, generosità e vantaggi per il territorio. La prima cosa da dire è che il Sud, per quanto riguarda il sistema ordinario Sai, ha accolto più del Nord: oltre la metà dei posti istituiti con il sono nel Lazio e nel Mezzogiorno, e la Calabria ha fatto meglio della Lombardia. I sindaci coinvolti hanno visto che l’accoglienza poteva essere occasione di sviluppo e occupazione. Ma questo modello per essere replicabile su larga scala, andrebbe migliorato nella fase successiva».

In che senso?

«La buona accoglienza praticata in parecchi comuni del Sud trova un ostacolo quando le persone cercano uno sbocco lavorativo. La soluzione è investire sulla loro formazione, sulla conoscenza della lingua e dei diritti e, in modo complementare, costruire progetti di accoglienza nelle regioni dove serve manodopera. Ma va anche superata la barriera fittizia tra lo status di rifugiato e quello di lavoratore occupabile, realizzando così un percorso di autonomia anche per chi scappa da guerre e persecuzioni».

Articolo pubblicato sul numero di giugno di LiberEtà. Per abbonamenti alla nostra rivista, clicca qui