Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, ed Elly Schlein, segretaria del Partito democratico, hanno raggiunto i vertici politici in Italia. Ma davvero la battaglia per la parità di genere è vinta? Le sociologhe Flaminia Saccà e Anna Simone spiegano quanto è accaduto in questi mesi
Ci sono voluti settantasette anni per vedere in Italia un capo di governo donna celebrare la Festa della Repubblica nata dalla Resistenza e dalle ceneri del nazifascismo. Altrettanti ne sono trascorsi prima che contemporaneamente fosse una donna a dirigere il maggior partito di opposizione. Altrove sembra essere stato tutto più veloce e le donne hanno varcato le stanze del potere decisamente prima: Margaret Thatcher salì sul gradino più alto della politica britannica il 4 maggio 1979, Angela Merkel, in Germania, nel 2009, Golda Meir, in Israele, nel 1969, Indira Gandhi, in India, nel 1980. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire tornando alla situazione italiana. Ma davvero il percorso di emancipazione femminile è ormai giunto a un punto tale che l’elezione di una donna premier ne è la logica conseguenza? E ancora: in tema di potere le donne sono riuscite a rompere il “soffitto di cristallo” di discriminazioni e barriere che finora ha impedito loro di ottenere la parità dei diritti e delle carriere apicali?
Un fatto sociale. Secondo Flaminia Saccà, docente di sociologia dei fenomeni politici presso la Sapienza università di Roma, «le vittorie di Giorgia Meloni e di Elly Schlein rappresentano un fatto sociale. Nel bene o nel male hanno abbattuto una barriera e per le giovani generazioni sono l’esempio concreto di un traguardo possibile. Nella realtà, però, siamo ancora molto indietro. Si dà per scontato che la battaglia per la parità di genere sia già stata vinta, ma se si osservano i dati ci accorgiamo che sono poche le donne in posizione di vertice, sia nel mondo produttivo sia in politica sia nell’università. Quando va bene raggiungono il 30 per cento». L’ultimo rapporto Onu sulle differenze di genere colloca il nostro paese al sessantatreesimo posto su 193 nazioni e mostra come, nel mondo, le donne non potranno raggiungere le stesse posizioni di potere degli uomini prima di 130 anni. «Davanti a noi – osserva la sociologa – ci sono paesi come le Filippine, il Costa Rica, il Burundi che in pochi anni hanno fatto grandi progressi, mentre l’Italia è rimasta sostanzialmente al palo. Lo stesso vale anche nelle aziende: aumentano le donne dirigenti, tuttavia al comando prevalgono gli uomini. Le amministratrici delegate sono molto rare». Il potere, spiega ancora Saccà, è stato strutturato e forgiato per millenni dagli uomini. Anche oggi lo stile della leadership, le sue dinamiche e le sue regole ne risentono. Per la sinistra e per il mondo femminista cosa si intenda per potere e se ne esista uno maschile e uno femminile è tema di discussione. Cosa dovrebbe essere il potere da una prospettiva femminista che sfida i modelli consolidati, le rendite di posizione, il patriarcato?
Immagine rassicurante. Le donne di destra appaiono più rassicuranti. Non sfidano lo status quo. Prestano un volto “gentile” a organizzazioni e proposte politiche che risulterebbero indigeste se alla guida ci fosse un volto maschile. Il presidente del Senato, Ignazio Benito La Russa, non sarebbe arrivato dove è riuscita Giorgia Meloni. La premier propone alle donne un modello virtuoso di emancipazione, che celebra la forza di volontà della soggettività femminile e mostra come sia possibile conciliare carriera e famiglia senza dover rinunciare a nulla della propria identità. Allo stesso tempo, rassicura gli uomini, mostrando un modello di emancipazione femminile innocuo, che non mette in discussione le strutture dei rapporti di genere, le loro asimmetrie, le aspettative».
La differenza non è la donna. «Il grande imbroglio – avverte Anna Simone, docente di sociologia del diritto presso l’università Roma Tre – è promuovere la “donnità” al potere, senza minimamente comprendere che ciò che fa la differenza non è la donna che occupa un ruolo apicale, ma la qualità dell’azione politica di quella donna in un contesto di potere. Quanto poi al rapporto tra donne al potere e femminismo, l’equivoco è dato dal fatto che le donne di destra al comando sono molte più di quelle di sinistra. La risposta è semplice: l’esperienza ci insegna come spesso le leader politiche di destra o estrema destra (pensiamo a Marine Le Pen) non scalfiscono una virgola dell’organizzazione maschile del potere, anzi garantiscono la riproduzione perenne della cultura patriarcale». «In ogni caso, se si vuole accedere al potere per cambiare le regole – ribadisce Flaminia Saccà – bisogna quantomeno conoscerle e capirle. Rifiutarle e poi sperare che gli uomini si facciano da parte per consentire alle donne di prendere il loro posto non è nell’ordine delle cose. Nel campo politico della destra su questo sembra esserci maggiore consapevolezza. “Se arrivo prima la premier sono io”, ha dichiarato Giorgia Meloni prima delle elezioni agli uomini della sua coalizione. Più chiaro di così…».
Donnismo e femminismo. È del tutto irrilevante che una donna sia giunta al potere se la struttura stessa del potere costituito non cambia e non si trasforma. «Anzi – sostiene Anna Simone – è persino peggio perché, come quasi sempre accade, vedere ripercorrere da una leader le modalità maschili della gestione del comando è anche più triste. Bisognerebbe tenere la barra salda tra “donnismo”, parità di genere e rottura dei soffitti di cristallo per tutte le donne. Il fatto che una donna di sinistra come Elly Schlein abbia assunto la guida del Partito democratico all’indomani della nomina della Meloni – prosegue Simone – è molto interessante. Lei conosce la cultura femminista e sa che cos’è il femminismo. Prova in un certo senso a cambiare le regole interne al partito stesso. Ma la verità è che non può farlo una donna soltanto. Da sola non potrà mai cambiare alla base la ragione per cui le donne del Partito democratico non sono mai state alla guida del partito».
L’idea si fa realtà. «Tuttavia – secondo Saccà – non è un caso che il Partito democratico abbia scelto come segretaria una donna proprio in concomitanza con la premiership di Giorgia Meloni. Improvvisamente per le donne ricoprire un ruolo di vertice diventa più fattibile; l’idea si fa tangibile ed entra, come possibilità concreta, nell’immaginario collettivo. Anche la sinistra può farsi promotrice, si spera con minori timidezze e più determinazione, di politiche femministe in grado di cambiare davvero la vita delle donne, per migliorare la vita di tutte e di tutti».
Articolo scritto nel numero di giugno di LiberEtà. Per abbonarti alla nostra rivista clicca qui