Fino a un mese e mezzo fa sembrava proprio che il nuovo Coronavirus avesse scelto una vittima eccellente nel sistema economico mondiale: l’industria del petrolio. Paralizzata dallo stop alla produzione nei maggiori Paesi del mondo, l’estrazione dell’oro nero sembrava un’attività ormai sull’orlo del fallimento definitivo. In aprile le scorte erano tanto grandi da far temere che la capacità di stoccaggio fosse ormai al limite. L’estrazione doveva fermarsi. E quando un sito si ferma, difficilmente poi riparte. Con tutte le conseguenze sul fronte economico. Per gli Stati Uniti, che relativamente da poco sono diventati autosufficienti con lo “shale oil” (il cosiddetto olio di scisto, prodotto da frammenti di rocce bituminose) significava il fallimento di decine e decine di società. A segnalare la crisi nera (è il caso di dirlo) è stata subito la quotazione del barile in Borsa, che era arrivata a un valore negativo: ti paghiamo se lo compri. E un crollo così si traduce in un buco senza fondo nelle entrate di grandi Paesi come la Russia, o per tutta l’area del Golfo. Ma poi, quasi miracolosamente, la grande rete dei “Grandi Produttori” ha ritrovato una sorta di equilibrio interno. Lo stoccaggio ora sembra sotto controllo, la macchina ha ripreso a marciare, anche se a ritmi molto più lenti di quelli pre-crisi. Il cambio di rotta lo ha innescato l’Arabia Saudita, il grande “Regno del Petrolio” che di fatto ha il potere di condizionare produzione e prezzi in tutto il mondo. Gli sceicchi sauditi hanno deciso di tagliare ancora la loro produzione, lasciando un po’ di manovra agli altri produttori. Il prezzo è tornato attorno ai 30 dollari al barile. Ma la crisi c’è e continua a farsi sentire. Non è escluso che anche alla fine dell’anno, con il rischio di una nuova ondata di infezioni da Corona, sarà ancora il petrolio a segnalare dove va il mondo.
Rubrica a cura di Bianca Di Giovanni