Parla Horacio Duràn, leader anziano del gruppo cileno riparato in Italia dopo il Golpe che destituì Salvador Allende. La band si esibirà stasera alla Festa Nazionale di LiberEtà, in corso a Senigallia
Dalle feste de l’Unità alle manifestazioni contro il golpe del dittatore Pinochet in Cile; dal fascino per l’uso di strumenti musicali quasi sconosciuti della tradizione andina alle canzoni diventate inni alla libertà e cantate in tutto il mondo.
E poi il poncho d’ordinanza che molti adottarono, come le barbe incolte “alla Che Guevara” e la scoperta del profumo di un Sud America che sa di cordigliera, lontano, ma non meno affascinate, dall’esotismo raffinato della Bossa Nova brasiliana o dalle note seducenti del tango argentino che tutti invece conoscevano.
Era questo il “pueblo unido” che amava e continua, anche con le nuove generazioni, ad amare gli Inti Illimani. Nome (in dialetto ayarnara, “Sole dell’Illimani”, vetta andina non lontana da La Paz, in Bolivia) scelto dal chitarrista boliviano Eulogio Dávalos, nel 1967, proprio per sottolineare la passione del gruppo per la musica dell’altopiano andino.
L’11 settembre 1973 gli Inti Illimani si trovavano in Italia quando la loro vita cambiò completamente. Cinquant’anni dopo tornano nel nostro paese perché con la loro musica e le loro canzoni continuano ancora, in tutto il mondo, a far battere il cuore di chi ha i propri ideali piantati nella terra della democrazia, della libertà e del rispetto dei diritti umani. Con la formazione Inti Ilimani Histórico, tre dei fondatori del gruppo, Horacio Salinas, Horacio Durán e Josè Seves e i nuovi componenti Fernando Julio, Camilo Salinas e Danilo Donoso, il 14 settembre si esibiranno a Senigallia in occasione della Festa nazionale di LiberEtà.
Mezzo secolo fa, invece, quando nessuno tra loro superava i trent’anni, il golpe militare di Augusto Pinochet in Cile segnò per il gruppo l’inizio di un esilio durato sino al 1988, quando l’esito del plebiscito nazionale voluto dallo stesso Pinochet registrò la vittoria dei democratici, costringendo alle dimissioni lo stesso dittatore. Horacio Duràn, aveva allora ventotto anni.
“Il giorno del colpo di Stato in Cile – ricorda – eravamo a Roma. Ci godevamo le bellezze della capitale dalla terrazza della cupola di San Pietro. Eravamo partiti dal nostro paese nel mese di luglio per un tour in Europa. Vivevamo un periodo estremamente ricco e vivace: insieme al mondo della cultura cilena avevamo appoggiato la candidatura alla presidenza della repubblica di un socialista, Salvador Allende, e contribuito alla sua elezione nel 1970.
Sulla terrazza della cupola di San Pietro arrivò un “compagno della Fgci” rimasto senza fiato per aver salito di corsa centinaia di scalini che portano lassù e disse soltanto: “Colpo di Stato in Cile”. I fatti estremi ti fanno maturare in un giorno e quel giorno toccò a noi”.
Gli Inti Illimani suonavano insieme sin dal 1967, dai tempi dell’università. Alle spalle avevano già sette album e molti concerti tenuti in Sud America. Avevano incontrato il successo.
E crebbe ancora, in Italia e nel resto del mondo. Negli anni Settanta e Ottanta raggiunsero più volte le vette della classifica vendendo ovunque milioni di dischi e suonando in circa sessanta Paesi. Partita dall’arrangiamento di brani tradizionali dei connazionali Violeta Parra e Victor Jara, la band è autrice componimenti come Alturas e collabora con artisti del calibro Peter Gabriel, Mercedes Sosa, Silvio Rodríguez, Milton Nascimento, Pablo Milanés, Joan Baez, Isabel Parra, Víctor Heredia.
“Subito dopo – riprende Duràn – ci chiamò Giancarlo Pajetta, responsabile internazionale del PCI. Ci assicurò tutto il sostegno possibile e disse: ‘Quando arriva, il fascismo impiega molto tempo ad andarsene’. Noi pensavamo invece che in pochi mesi avremmo sconfitto Pinochet, ma non fu così. Fummo costretti ad aspettare quindici anni prima di tornare nel nostro paese”.
Come avete reagito in quella situazione?
Eravamo musicisti e potevamo lavorare ovunque. Questo ci ha aiutati. Qualcuno riuscì per vie traverse a contattare amici di famiglia che si sapeva non fossero controllati. Qualcuno nel giro di poco tempo scoprì di avere cognati e sorelle imprigionati. Eravamo sei, Max Berrù, José Miguel Camus Vargas, Jorge Coulón Larranaga, io, Horacio Salinas Alvarez, José Seves Sepùlveda, e ci siamo sostenuti con l’affetto e con il lavoro. Il successo arrivò immediato: un po’ per la solidarietà del popolo italiano, un po’ per la novità della nostra proposta musicale. La repressione spietata della dittatura militare rese impossibile un vostro ritorno e si accanì contro gli oppositori, il simbolo di tutto questo è lo stadio di Santiago. Ammazzarono Victor Yara in modo orrendo, ammazzarono intellettuali, persone che lavoravano in televisione, nel cinema. Sparirono donne e ragazze, uomini e giovani studenti. Molti vennero deportati nei campi di concentramento. Quando Pinochet è morto, nel 2006, ho pianto come mai in vita mia per tutti i nostri morti.
Chi era invece Salvador Allende, cosa ha rappresentato?
Un grande personaggio di grande rilievo, con una grande cultura generale e soprattutto politica. Ancora oggi ci manca. Ora, solo ora, e non è un caso, il nuovo presidente Gabriel Boric, non ancora quarantenne, rappresenta il bosco che rinasce dopo l’incendio della dittatura che aveva distrutto non solo la democrazia ma un sistema economico e sociale, la cultura e una intera classe politica, anche di destra. Ho speranza in questo».
El pueblo unido jamàs serà vencido è diventata una canzone di lotta e libertà universale, al pari di Bella Ciao viene cantata in tutto il mondo.
Non è una nostra canzone, testo e musica sono di Sergio Ortega con il gruppo Quilapayùn e la composero nel giugno del 1973. Noi l’abbiamo eseguita per la prima volta in Italia, a Firenze, durante un concerto che tenemmo alla Fortezza da Basso, allora una struttura universitaria, il 28 novembre dello stesso anno. C’erano centinaia di studenti. Quando abbiamo cominciato a cantarla si è creata una situazione straordinaria. L’amore per questa canzone è divampato subito e oggi viene cantata ovunque, proprio come Bella Ciao. La musica, l’arte, non cambiano le cose ma possono raccontarle con grande potenza. Come esempio mi viene in mente Picasso con Guernica.
Dopo cinquantasei anni di vita musicale e oltre quaranta album alle spalle siete diventati dei classici.
Abbiamo molti anni ma andiamo avanti. Una delle cose belle che il lavoro artistico ti concede è che non ti manda in pensione. Andremo avanti fino a quando avremo un sospiro da scrivere. Non siamo i giovani di cinquanta anni fa ma quando suoniamo l’età non conta. Conta la passione, conta l’esperienza ma più di tutto è importante non perdere mai l’innocenza.