Il sindacato di fronte alla crisi. “Vogliamo essere protagonisti del cambiamento”

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Maurizio Landini ha chiuso i lavori del XXI congresso del Sindacato dei pensionati Cgil a Verona. Nella sua relazione conclusiva ha sottolineato come la Cgil sia un sindacato che fa della democrazia e della rappresentanza la sua ragione di vita e il suo elemento di forza, e ribadito la volontà di contrattare e poter discutere sempre alla pari. Senza chinare la testa con nessuno. Nè coi partiti, coi governi nè con le imprese e mantenendo la funzione di sempre e allo stesso facendosi portatori di un progetto di cambiamento.

Pubblichiamo di seguito alcuni stralci della sua relazione di chiusura.

La guerra. Siamo nel pieno di una guerra che rischia di sfociare in una guerra nucleare. Un anno fa siamo stati la prima organizzazione nel nostro paese che ha preso una posizione per dire che bisognava fare tutto ciò che era nelle condizioni per impedire che potesse scoppiare una guerra e non abbiamo esitato a scendere in piazza anche quando questo ha determinato critiche e attacchi nei nostri confronti. Ma la nostra organizzazione stata capace di mantenere la propria unità, la propria capacità di assumere una posizione precisa su questo tema fino a organizzare quella bellissima e grandissima manifestazione a Roma il 5 novembre. Ci siamo presi un impegno che non era semplicemente un atto di testimonianza ma un’azione concreta per essere costruttori di pace che sarebbe proseguita fino ad arrivare all’obiettivo di un cessate il fuoco e a fare partire davvero un dialogo, un confronto, una negoziazione. Ma contro questa guerra noi stiamo anche affermando un’altra idea di società e un altro modello di sviluppo. Questo percorso lo abbiamo fatto con tanti altri soggetti, associazioni laiche, cattoliche e in questo percorso è maturata anche la decisione di un incontro con Papa Francesco.

La crisi. Noi non siamo di fronte a una crisi normale, ma a una crisi strutturale, sia del sistema capitalistico sia della democrazia che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Ma non siamo di fronte alla caduta del sistema capitalistico, siamo di fronte a una riorganizzazione e alla necessità di ridefinire degli equilibri, un nuovo modello. E in tutto questo c’è un elemento di novità dato dalla velocità con cui questi processi di cambiamento stanno avvenendo e con cui siamo tutti chiamati a fare i conti. Noi dobbiamo avere l’umiltà, la capacità e l’intelligenza collettiva di misurarci qui ed ora con quello che sta succedendo e indicare quelle che possono essere le azioni per poter affrontare questa situazione che sta mettendo in discussione la stessa idea di Stato sociale, così come noi l’abbiamo costruita. Perché di fronte a un progetto di questa natura, pensare che sia sufficiente difenderci e resistere e aspettare le cose torneranno più o meno come prima, vuol dire non aver capito nulla di quello che sta succedendo. In tutto questo si riscontra anche un problema di una rappresentanza politica che oggi è in crisi, e che in passato, in un qualche modo, aveva provato anche a misurare il lavoro, ma oggi non è in grado di misurarlo. Siamo di fronte a un fatto nuovo che nella storia della nostra Repubblica, non era mai avvenuto, ossia che il 60% dei cittadini italiani a andasse a votare. Questa è una crisi della democrazia. E non siamo di fronte al populismo, all’antipolitica. Una parte consistente del mondo che noi vogliamo rappresentare non è andato a votare e questo vuol dire che c’è un elemento non solo di rottura con la politica, ma che siamo dentro a un processo di sfiducia verso la politica e verso le forze politiche perché le perone non si sentono più rappresentate

E queste sono le condizioni non solo per indebolire la democrazia, ma per aprire la strada come sta avvenendo a una logica autoritaria di gestione anche dei processi e della politica. Ma non si è aperta una discussione sul perché 18 milioni di persone non sono andate a votare alle politiche e  sul perché alle amministrative il 60% non è andato a o sul perché a Roma ha votato il 33%. Non so cosa deve succedere ancora per rendere evidente che c’è un elemento di indebolimento e di crisi della democrazia. Oggi invece c’è bisogno di una risposta radicale rispetto alle necessità di ricostruire la partecipazione e la fiducia.

Autonomia differenziata e presidenzialismo.  Sulla proposta di autonomia differenziata il governo dice che non fa altro che applicare le modifiche alla Costituzione fatte nel 2001, la famosa modifica del titolo V della Costituzione. La modifica del titolo Quinto della Costituzione non l’ha fatto un governo, né di destra né di centrodestra. Io penso che sul tema dell’autonomia differenziata si giochi non solo il cambiamento della Costituzione, ma la difesa dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, cioè il diritto al lavoro, il diritto alla sanità, il diritto alla scuola garantiti a tutti i cittadini. C’è una bugia di fondo dietro a questa idea, e cioè che tante piccole patrie regionali sono in grado di fare i conti con i processi generali. Voi pensate davvero che questa sia una cosa che ha un fondamento? In realtà dietro c’è un disegno politico, perché in un paese che è pieno di diseguaglianze, non si fa altro che innescare un processo che le amplifica. Guardiamo ad esempio la sanità, la scuola, i diritti del lavoro, ai contratti nazionali: l’autonomia differenziata porterà in realtà ad un aumento della privatizzazione dei servizi e al superamento dell’esistenza stessa dei contratti nazionali di lavoro. Accanto al tema dell’autonomia differenziata, c’è poi quello della riforma del presidenzialismo e l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Ma se c’è una cosa che funziona nel nostro paese, quella è il Presidente della Repubblica. Perché la debbo cambiare. Quello da cambiare è la legge elettorale perché uno dei punti che ha determinato questa lontananza è proprio il fatto che i cittadini non decidono chi è che li rappresenta in Parlamento e chi viene eletto deve rispondere ai cittadini che l’hanno eletto.

Il rapporto con il governo.  E dall’altra parte, questo pone a noi anche il tema del diritto di poter esercitare la contrattazione collettiva prima che vengano prese le decisioni dai governi, perché l’azione sindacale in termini di contrattazione e di rappresentanza dei bisogni e degli interessi delle persone deve avere luoghi in cui questo confronto negoziale avviene nella fase di progettazione. Invece il governo con noi non sta discutendo a nessun livello. Quando siamo stati convocati a Palazzo Chigi prima che facessero la legge di bilancio avevano detto che erano pronti a discutere con noi e ma poi ci hanno chiamato quando la legge era già stata fatta. E poi gli incontri sulle pensioni, sulla salute, sulla sicurezza, sono avvenuti con 40 diverse associazioni di varia natura. E la Presidente del Consiglio ha detto una cosa molto precisa: voi dite anche delle cose giuste ma voi sindacati rappresentate degli interessi particolari, mentre noi governo rappresentiamo gli interessi generali. Questo vuol dire che siamo alle prese con un governo che vuol costruire un proprio blocco sociale di riferimento e non riconosce al sindacato confederale la legittimità e il ruolo di un soggetto che può negoziare alla pari con il governo per definire l’assetto generale del paese. Questo significa mettere in discussione il ruolo di soggetto generale di rappresentanza, ma anche creare le condizioni per cambiare la natura stessa dell’organizzazione sindacale in quanto tale, perché prevale la logica di chi, appunto, rappresenta solo degli interessi particolari. Per cui o noi siamo in grado di dimostrare che abbiamo un consenso maggioritario in questo paese e di mettere in campo iniziative di mobilitazione a sostegno delle nostre iniziative o altrimenti passerà al governo.

Il sindacato confederale. Allo stesso tempo, però, non facciamo l’errore di pensare che tutti quelli che hanno votato il partito del presidente del Consiglio sono improvvisamente diventati dei fascisti perché faremmo un errore e non capiremmo quello che sta succedendo. Dobbiamo sapere che la ricostruzione di un consenso attorno alle nostre proposte esiste, se siamo in grado di far vedere qual è il contenuto, l’azione, il bisogno a cui noi rispondiamo e se diventiamo il soggetto che di fronte alla crisi della democrazia è in grado di ridare senso e partecipazione alle persone dentro e fuori dai luoghi di lavoro. Per questa ragione diventa per noi decisiva non solo l’azione nei luoghi di lavoro, ma tra la gente, nei territori e quindi anche il ruolo dell’azione confederale e del ruolo delle camere del lavoro. Questo vuol dire che il sindacato di strada non è uno slogan ma una pratica per costruire sulle nostre proposte fondamentali un consenso e un’iniziativa di mobilitazione non solo a livello nazionale, ha bisogno di costruire territorio per territorio, ma luogo di lavoro per luogo di lavoro per definire assieme quella che è una strategia confederale che riguarda la contrattazione, cosa chiediamo nei contratti, che azione mettiamo in campo, quale contrattazione sociale facciamo. Il punto è: costruire assieme alle persone che vogliamo rappresentare le nostre proposte, il nostro consenso. Perché quando parliamo di democrazia, non è un problema che riguarda solo gli altri ma riguarda anche noi.

Noi noi non siamo mai stati un sindacato aziendale o corporativo, noi non ci siamo mai limitati a rappresentare le persone che lavorano. Se oggi abbiamo lo Stato sociale, se c’è la sanità pubblica, se ci sono i servizi, se ci sono gli asili, se ci sono le scuole pubbliche, e perché negli anni Settanta, nel momento più alto del sindacato del nostro paese, questa capacità di rappresentare i bisogni e gli interessi delle persone in tutti gli aspetti della loro vita questo lo ha fatto il sindacato generale, confederale. La confederalità è una visione, un progetto. La confederalità è una pratica, è quello che si fa e che concretamente si realizza. Noi oggi abbiamo bisogno di allargare di democratizzare ancor di più la nostra organizzazione, i processi decisionali e il rapporto con le persone che noi vogliamo rappresentare, ma questo comporta affrontare il problema delle risorse, per mettere le strutture nel territorio nella condizione di poter agire. E dall’altra parte abbiamo bisogno di costruire luoghi e sedi in cui, a partire dal basso, pratichiamo la confederalità e il governo della nostra organizzazione e delle decisioni. Oggi il nostro problema è come mettiamo quelli che sono sul territorio nelle condizioni di poter discutere, agire, costruire vertenze, fare battaglie, allargare la rappresentanza.

La nostra organizzazione è l’idea stessa dell’azione collettiva, e a me una cosa che spaventa è il rischio che, così come le persone pensano che votare non serve più a nulla e hanno perso ogni fiducia la stessa coinvolga anche il sindacato e quelle persone arrivino a pensare che non serve a niente neanche scioperare, organizzarsi collettivamente nel sindacato Prendiamo ad esempio i giovani. Dove parliamo con loro? Come ci parliamo? Dov’è che abbiamo un confronto? Noi dobbiamo aprire le porte, essere pronti a cambiare perché non possiamo essere noi a parlare per i giovani, ma devono essere loro, le nuove generazioni, che entrano e si prendono gli spazi che meritano e che cambiano anche l’organizzazione sindacale, se è necessario. E noi dobbiamo essere a disposizione di questo processo. Perché se non è così io vedo il rischio, non che il sindacato non avrà un futuro, ma che cambierà natura l’organizzazione stessa a cui noi abbiamo sempre pensato e che vogliamo essere. Questa discussione è necessario farla, e noi dobbiamo provare a cambiare e a sperimentare i cambiamenti.

Rivedi il video delle conclusioni cliccando qui 

La rappresentanza. L’idea è quella di riunificare i diritti alla rappresentanza fondata sul voto delle lavoratrici e dei lavoratori che devono avere il diritto di votare i propri delegati e le proprie delegate e di poter decidere sulla validità dei contratti. Ma la rappresentanza deve essere misurata a tutti, anche agli altri sindacati e anche alle controparti. E questo, se ci pensate, è il modo per allargare i campi d’applicazione. Perché allora vuol dire che anche le partite Ive, il lavoro autonomo, debbono rientrare dentro alla contrattazione collettiva e devono avere gli stessi diritti. Questo significa anche affrontare il tema che riguarda l’azione della costruzione di un’unità sindacale che si fonda sulla partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, per cui la democrazia diventa lo strumento con il quale si costruisce questo processo.

La riforma fiscale. Ma c’è un altro tema fondamentale che si chiama riforma fiscale. Il fisco e la riforma fiscale sono il patto di cittadinanza che qualifica anche il livello di relazione tra le persone. Nel nostro paese non solo l’evasione fiscale non è mai stata scalfita, ma il grosso del peso fiscale, quindi dei servizi che vengono garantiti con il fisco, sono pagati solo da una parte delle persone, quella generalmente meno ricca: il mondo del lavoro e i pensionati. Questo è il quadro e non esiste nessuna possibilità di allargare la sanità pubblica, di fare gli interventi sul territorio, di allargare la formazione e la scuola se non abbiamo le risorse per fare gli investimenti che vanno in questa direzione. L’azione fiscale è un elemento di fondo per tenere in piedi anche i processi che vogliamo mettere in campo e per agire sull’aumento dei contratti e dei salari.

La precarietà. Altro tema fondamentale è quello della precarietà. La lotta alla precarietà passa dall’affermazione di un ruolo contrattuale più forte che metta nelle condizioni le persone di poter partecipare nella fase di progettazione dei cambiamenti nelle imprese, delle politiche del governo, delle politiche economiche. Significa pensare a un sindacato che fa della rappresentanza e della democrazia nel rapporto con i lavoratori l’elemento fondamentale su cui costruire la propria azione.

Invecchiamento e denatalità. Nel nostro paese si registra soltanto l’invecchiamento della popolazione, ma siamo anche di fronte al fatto che siamo quelli anche che fanno meno figli. In un incontro che abbiamo fatto sulle pensioni il Presidente dell’Inps ha detto che se oggi il rapporto tra chi è in pensione e chi lavora è 1,4 le previsioni sul calo delle nascite e l’invecchiamento portano da qui ai prossimi venti, trent’anni a un rapporto di uno a uno. Vuol dire che il sistema così come è pensato rischia di non reggere. E questa cosa non la risolvi semplicemente aumentando le nascite, cosa pure importante, ma avremo bisogno, se vorremo restare un paese manifatturiero e essere all’avanguardia, di molte persone che non sono nate qui e che vengono da altri paesi.

Il rapporto con la sinistra. Di fronte a questa complessità dei problemi, anche l’intervento pubblico nell’economia assume un ruolo decisivo, perché se c’è una cosa che stiamo pagando è il fatto che in questi anni è prevalso il pensiero che il mercato da solo era in grado di gestire questi processi. Anzi, è prevalsa l’idea che qualsiasi vincolo sociale e contrattuale andava messo in discussione perché diventava un vincolo allo sviluppo. E secondo me la sinistra o le varie forme con cui la sinistra si era presentata ne sta pagando anche le conseguenze. Perché una serie di politiche sul lavoro, sui diritti non sono state fatte solo da governi di destra o di centrodestra. In realtà sono cambiati i governi, ma non sono cambiate le politiche che hanno riguardato il superamento della precarietà e i diritti delle persone, le quali hanno misurato sulla loro pelle che sia con governi che dicevano di essere di centrosinistra o governi che dicevano di essere di centrodestra, per loro la condizione non cambiava e rimanevano precari comunque.

Il lavoro al centro. C’è una rottura tra la rappresentanza politica e il lavoro. Rimettere al centro il lavoro significa essere in grado di avere un progetto sociale, quindi di riforma, che si costruisce assieme alle persone che lavorano e che in un qualche modo pongono il problema di come ci si può realizzare, di come si aumentano gli spazi di libertà, di come cambi anche il rapporto dentro ai luoghi di lavoro. Il contributo di un’organizzazione come la nostra è fondamentale per ricostruire una cultura politica che rimetta al centro il lavoro e la persona. E questo parte da come noi siamo capaci di costruire un nostro progetto e di costruire una pratica democratica di partecipazione che fa vivere e coinvolge le persone.

Noi non vogliamo essere spettatori di quello che sta avvenendo o semplicemente resistere ai cambiamenti che non ci piacciono, ma vogliamo svolgere un ruolo per cambiare il modello sociale ed economico, per aprire una nuova fase sociale politica in cui il lavoro, le persone, tornino ad avere una centralità. Noi abbiamo dobbiamo essere un soggetto capace di parlare all’esterno, di costruire relazioni, di svolgere una funzione politica, non nel senso che ci sostituiamo ai partiti, ma nel senso che vogliamo essere un sindacato confederale che non rinuncia all’obiettivo della trasformazione del modello sociale ed economico del paese oltre che del cambiamento delle condizioni di vita e di lavoro.

La violenza sulle donne. Ma c’è ancora un tema sul quale dobbiamo concentrarci. Mi riferisco ai femminicidi e alle morti delle donne uccise dagli uomini. Questa è una questione sulla quale la nostra organizzazione deve arrivare anche a prendere decisioni. La violenza sulle donne la fanno gli uomini e non è un problema delle donne, è un problema di noi uomini, della nostra cultura. Serve un cambiamento della nostra cultura e del nostro agire, ed è venuto il momento di ragionare nei luoghi in cui la cultura e il pensiero si costruiscono. Io non voglio anticipare nulla ma ho in mente una cosa da porre alla discussione al Congresso nazionale perché penso che l’azione che si fa su questa materia deve essere un’azione rivolta agli uomini, che fanno gli uomini come elemento di cambiamento della loro azione, della loro cultura. Noi dobbiamo cambiare ed è il momento del coraggio. È il momento di osare. Abbiamo bisogno di porre un tema di questa natura, perché l’oggetto che va messo in discussione è proprio la cultura che sta dietro al femminicidio, che è la cultura della proprietà, di uomini che pensano di poter essere proprietari di un’altra persona.

Allargare la rappresentanza. Non dobbiamo aver paura delle scelte. Il confronto e la discussione, che è una discussione vera, non sarà facile. Sarà faticosa ma non abbiamo alternative. Non è il momento di abbassare la testa o di non assumersi la responsabilità per indicare un processo di cambiamento. Dobbiamo essere consapevoli della nostra forza e della nostra capacità di rappresentare. Le cose dipendono anche da quello che facciamo. Dobbiamo allargare la nostra rete, la nostra rappresentanza verso i giovani, verso il mondo associativo, laico, cattolico. Perché di fronte a un processo così complicato, anche con tutta la nostra forza, da soli non siamo in grado di invertire questa tendenza. Abbiamo bisogno dell’intelligenza di tutti e mi aspetto un contributo decisivo del sindacato dei pensionati nel realizzare questo cambiamento e che affronti anche i temi più delicati e difficili: dalle risorse al ruolo delle camere del lavoro, al rilancio di una contrattazione che ha come base il consenso e la rappresentanza dei lavoratori. Questo perché noi vogliamo continuare a essere un sindacato confederale, un sindacato che fa della democrazia e della rappresentanza la sua ragione di vita e il suo elemento di forza. Dobbiamo poter discutere alla pari senza chinare la testa di fronte a nessuno: partiti, governi e imprese, e dobbiamo essere allo stesso tempo portatori di un progetto di cambiamento. Questo è la sfida che abbiamo di fronte e penso che la possiamo affrontare tutti assieme.