Il racconto. Sicurezza sul lavoro: “Una tragedia a bordo”

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Questo Primo maggio è dedicato alla sicurezza sul lavoro. Sul tema, un nostro lettore ci ha inviato il racconto di un incidente di cui è stato testimone. Era il1961 e da un mese si era imbarcato su una nave in qualità di allievo ufficiale di coperta. 

Di Giovanni Cazzato

Da quel giorno, per tutto il tempo che ho navigato, ho fatto sempre indossare la cintura di sicurezza al personale che lavorava a una certa altezza dai ponti. Durante le esercitazioni o per altre riunioni sulle navi, riguardo alla prevenzione ho sempre insistito perché venissero affissi avvisi nelle salette mensa e negli altri posti in cui la presenza del personale era maggiore, in modo da poterli vedere e leggere facilmente.
La sicurezza, in lingua anglosassone si pronuncia “safety first”. Significa che quando si programma un lavoro, bisogna sempre prevenire infortuni o disgrazie. Invece quella volta…

Come tutte le mattine da quando avevamo lasciato il Mar Rosso, finita la colazione salivo sul ponte e stavo due ore al timone (a quel tempo si navigava con la bussola magnetica) e sostituivo così il marinaio per farlo tornare al suo lavoro.

Da circa un mese ero a bordo, imbarcato a Catania in qualità di allievo ufficiale di coperta e avevo già ottenuto la fiducia del comandante che, una volta lasciato il golfo di Aden, mi faceva restare da solo in plancia e pure al timone. Quando tutto era tranquillo, il comandante saliva sul ponte di comando solo verso le dieci. Qualche minuto prima, al timone veniva il marinaio di guardia. Se il tempo era buono e c’era il sole, prima il comandante e poi io facevamo una retta d’altezza, rilevavamo cioè il sole, per poi, al suo passaggio a mezzodì, rilevarlo di nuovo, in modo da poter conoscere la nostra posizione sul mare. In questo modo, nel 1961, si navigava e si conosceva il punto nave, e questo permetteva di tracciare la rotta da seguire.

Il giorno prima avevamo lasciato Singapore diretti in Giappone, dove avremmo scaricato ferraccio e altro materiale metallico, residuato bellico caricato in vari porti d’Europa. C’era una calma piatta, nessun alito di vento e nessuna increspatura delle acque. Quella mattina, alcuni marinai facevano manutenzione e pitturavano in cima e sulla piattaforma dell’albero di trinchetto, a circa quindici metri dal ponte di coperta. Ero al timone e vedevo benissimo i marinai che salivano e lavoravano sia lassù che in coperta.

Erano circa le nove e trenta quando a un tratto vidi un marinaio cadere dall’albero. Si udirono subito delle urla e delle grida laceranti. Colpii forte e più volte con il tacco della scarpa il pavimento (era il segnale convenuto per far salire subito il comandante che aveva la cabina proprio sotto la ruota del timone). Subito il signor Brignasco venne su. Dopo pochi secondi era sul luogo dell’incidente. Anche il radiotelegrafista arrivò in plancia. Lo pregai di prendere il timone e anch’io corsi in coperta. Il nostromo era accasciato in maniera scomposta vicino al verricello, mentre il marinaio Stirano, che quella mattina avevo sostituito al timone, era immerso in una pozza di sangue. L’osso spezzato del femore sinistro fuoriusciva dalla coscia, il braccio sinistro penzolava, al posto dell’arco del sopracciglio sinistro, un buco profondo dal quale usciva a fiotti il sangue. Il poveretto urlava e tremava. Il comandante mi ordinò di andare subito in farmacia e portare l’occorrente per medicarlo. Lui intanto correva verso la sua cabina, dove in una cassaforte teneva custodita la morfina.

Anche al nostromo venivano praticate un po’ di cure e gli venne fasciato alla meglio il torace e la spalla lussata in più parti. Era lui che dirigeva i lavori in quel momento e approntava gli attrezzi e la pittura. Stando in coperta, appena s’era reso conto di ciò che stava accadendo, d’istinto aveva cercato di salvare il marinaio. Cercò di prendere al volo Stirano nella speranza di salvarlo o, almeno di attutirne la caduta sul ferro della coperta. La sua prontezza e lo spirito di conservazione, fecero sì che il marinaio non morisse sul colpo.

Il sole cominciava a surriscaldare le lamiere (eravamo all’altezza dell’equatore), perciò il comandante, una volta iniettata la morfina a Stirano, decise di far trasportare nelle proprie cabine i due infortunati. Nel frattempo, tramite radio, si chiedeva soccorso, contattando per prima l’autorità portuale di Singapore, il porto più vicino, e comunicando allo stesso tempo la nostra posizione.

Mi prodigai a disinfettare nel modo migliore le ferite di Stirano facendomi aiutare per cercare di bloccare la fuoriuscita del sangue: lui, con la voce sempre più flebile per la perdita di sangue e per gli effetti della morfina, continuava a chiamare “Carmela, Carmela mia, non ti vedrò più Carmela”. Stirano aveva lasciato sua moglie due anni prima, quando si era imbarcato su questa nave che gli aveva dato un po’ di sicurezza economica ma che ora gli stava prendendo la vita.

Mentre ero nella cabina, un paio di marinai sistemavano nella sua valigia di cartone i suoi pochi e poveri oggetti personali mentre io li inventariavo. Lo stesso fu fatto nella cabina del nostromo, il quale continuava a lamentarsi per i dolori che la spalla e il torace gli procuravano. Il comandante mi ordinò di iniettare della morfina anche a lui.

Su quella nave, tipo liberty americano, eravamo trentacinque membri d’equipaggio, ma solo noi ufficiali avevamo qualche nozione di igiene navale, apprese nell’ultimo anno di Istituto nautico: il soccorso che potevamo prestare era oltremodo blando e scarso.
Il radiotelegrafista restava sempre in ascolto e non passò molto tempo che ricevette un messaggio dalla stazione radio di Singapore che ci informava dell’arrivo di una nave da guerra e della posizione in cui si trovava. Il comandante cambiò la rotta per andare incontro ai soccorritori. Nel primo pomeriggio avvistammo una nave all’orizzonte. Erano state issate al pennone dell’albero di maestra, le bandiere che servivano per farci identificare e quelle per la richiesta di soccorso sanitario. Cominciammo a vedere lampi di luce dalla nave in arrivo. In alfabeto Morse chiedevano di identificarci, rispondemmo allo stesso modo. In quegli anni, in lontananza si comunicava solo con le bandiere e con l’Aldis, un proiettore munito di una sorta di tapparella metallica mobile. Non esistevano altri mezzi di comunicazione.
Nel frattempo avevamo approntato il nostro scalandrone per facilitare la salita a bordo e anche un bigo per l’eventuale trasbordo su una barella o una lettiga.

Ci veniva incontro un incrociatore della Regia marina britannica che si trovava in quelle zone. Appena fermo, nelle nostre vicinanze ammainò una scialuppa dalla quale scesero parecchi militari col compito di raggiungere la nostra nave. Subito alcuni di loro furono accompagnati nelle cabine dove si trovavano i due infortunati. Ricordo che quando videro lo stato pietoso di Stirano, rimasero trasecolati e ammutoliti. In pochi secondi decisero di trasbordarlo sulla loro unità navale.
Notai anche che scrivevano qualcosa che consegnarono poi a un loro subalterno. Questi tornò alla scialuppa per rientrare a bordo dell’incrociatore. Ne venne però via subito dopo per tornare sulla nostra nave, con un paio di altri marinai muniti di barelle, bende e medicinali. Altri militari si avviarono nella cabina del nostromo. Stabilirono di sbarcare anche lui, sull’incrociatore c’erano attrezzature adatte per poterlo curare. Nell’ufficio del comandante altri militari ancora espletavano alcune pratiche per il trasbordo dei due infortunati, cosa che avvenne nel giro di poco tempo. Osservai che alcuni ufficiali dell’incrociatore chiedevano informazioni e facevano domande ai nostri marinai, ma erano pochi quelli che capivano o conoscevano la lingua inglese. Una volta sistemati sulle barelle, i nostri furono trasbordati e tutti i militari lasciarono la nostra nave.

Messo di nuovo in moto, riprendemmo la navigazione immersi nello sconforto e nella tristezza. Poco dopo la partenza, il radiotelegrafista ricevette un messaggio che consegnò al comandante. Vidi il suo viso irrigidirsi. Con gli occhi lucidi, il comandante ci comunicò che Stirano non ce l’aveva fatta. Era deceduto poco dopo il trasbordo. Il nostromo, che aveva riportato la frattura del braccio, di numerose costole e altri traumi, sarebbe stato invece trasferito l’indomani in un ospedale civile di Singapore.

Già quella sera notai una certa freddezza tra il comandante e Scola, il primo ufficiale. Allora, a bordo era il primo ufficiale che organizzava e ordinava al nostromo i lavori di manutenzione o riparazioni varie, di cui la nave aveva bisogno. Era quindi il responsabile del personale addetto ai lavori. Ma il responsabile legale di tutto quello che accadeva a bordo, anche nel reparto macchine, era sempre il comandante.

Il viaggio proseguiva verso il Giappone. Durante la guardia di notte, ma anche quando incontravo i marinai, di giorno, chiedevo come mai Stirano fosse caduto, tanto più che quel giorno il mare era liscio come l’olio, nessun alito di vento né onde lunghe che potevano far rollare la nave. Ricevevo tante risposte, ognuna poteva essere vera: poteva aver avuto un capogiro; era inciampato; i raggi del sole lo avevano abbacinato; forse era stato un colpo di calore o, essendo il mare calmo, i raggi del sole riflessi dall’acqua lo avevano abbagliato. Forse aveva avuto un malore…i motivi potevano essere tanti né si poteva essere certi di niente. Solo Stirano poteva saperlo. Nella mia mente non c’era altro che dubbi.

Una mattina notai che il primo ufficiale stava in coperta, vicino al verricello, con una sagola messa sul tamburo che teneva in tensione fino a strapparla. Non prestai molta attenzione all’operazione anche se mi sembrava piuttosto incomprensibile che facesse tutto senza alcun marinaio vicino. Poi, una notte, a mente fredda, forse perché un po’ più rilassato, credetti di capire: il primo ufficiale aveva strappato la sagola della cintura di sicurezza con l’obbiettivo, forse, di creare qualche prova a suo favore per l’incidente avvenuto. In caso di inchiesta, si sarebbe dimostrato che Stirano indossava la cintura di sicurezza mentre picchiettava e pitturava ma che questa si era rotta al momento della sua caduta.

Non so come sia andata a finire l’inchiesta e se c’è stata, erano altri tempi. So soltanto che quella tragedia è rimasta impressa per sempre nella mia mente.