Democrazia e antifascismo. La lezione di Giovanni De Luna

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Questa intervista al professor De Luna è contenuta con il titolo “Democrazia come militanza” nel volume “Democrazia. Passato e presente di un’idea” (a cura di Antonio Fico, Edizioni LiberEtà). Il libro, basato su otto interviste a Luciano Canfora, Marco Revelli, Paolo Ercolani, Yves Mény, Michele Mezza, Giovanni Sabbatucci, Nadia Urbinati, Michele Mezza ripercorre, dall’antichità al presente, le principali tappe del concetto di democrazia.  

 

 

Professor De Luna, oggi l’antifascismo ritorna come risposta necessaria ai rischi che corre la democrazia. Ma quale ruolo ha svolto l’antifascismo nella nostra storia repubblicana? 

L’antifascismo è un contenuto imprescindibile della nostra democrazia. La nostra non è una democrazia qualsiasi, ma nasce come democrazia antifascista.

Ed è proprio l’antifascismo a dare quel surplus di militanza, di coinvolgimento anche emotivo che l’ha resa viva anche in momenti drammatici della nostra storia. La democrazia che emerge dalla seconda guerra mondiale è più forte e più seduttiva di quella liberale, perché si era visto che senza sovranità popolare, non c’era altro che dittatura e guerra. Torna quindi a nascere, dopo il conflitto bellico, come forma di governo per cui combattere e militare, per cui sacrificarsi. Lo stesso scontro comunismo-anticomunismo che ha infiammato le piazze, ha riempito i comizi e i cortei nel corso dei decenni passati, è stato un segnale forte di democrazia. La nostra diventa quella che possiamo definire una democrazia militante proprio grazie all’antifascismo. È il nesso con l’antifascismo e la Costituzione repubblicana ad aver determinato la grande partecipazione popolare che ha finito per dare nerbo e forza alle istituzioni democratiche.

 

Questo è un scenario che, come abbiamo visto, è progressivamente mutato per poi cambiare radicalmente con il passaggio del secolo. A che punto siamo oggi?

Il Novecento come secolo delle masse aveva notevolmente ampliato i margini di intervento dello Stato. Presupponeva grandi partiti di massa come traslazione sul piano politico della partecipazione e della mobilitazione, come esito dell’allargamento della sfera della cittadinanza. Oggi, invece, assistiamo ad un cambiamento strutturale nel rapporto tra democrazia, partecipazione politica e patto sociale, a partire da un dato di fatto: non ci sono più i grandi apparati istituzionali e politici novecenteschi. Il cambiamento però non si spiega solo con la fine dei luoghi che avevano alimentato la partecipazione, o con trasformazione del paradigma produttivo e la fine della fabbrica fordista. Un altro elemento su cui è vale la pena riflettere è il parallelismo che intercorre tra la trasformazione dei mezzi di comunicazione di massa, le forme di organizzazione politica e il concetto stesso di democrazia.

 

Cosa intende?

Nel Novecento, la forma egemone di comunicazione è stata la carta stampata – giornali, manifesti, volantini, libri – a cui corrispondeva il partito di massa. Senza stampa il partito di massa non sarebbe stato tale. Durante il secolo scorso, le forme di organizzazione della politica cambiano una prima volta quando si manifesta l’egemonia della televisione. Il successo di Berlusconi in Italia è sintomatico di come i mezzi di comunicazione di massa cambino i rapporti di forza a favore di un’abilitazione politica di tipo leaderistico e carismatico, dove a prevalere è l’appeal del leader rispetto all’organizzazione politica. Cambia lo stesso palcoscenico della politica, che si sposta dalle assemblee dei partiti ai talk show. Oggi l’egemonia della rete ha imposto una nuova trasformazione organizzativa alla politica: senza questo cambiamento radicale, il Movimento 5 stelle non sarebbe stato nemmeno ipotizzabile.

 

Quale tipo di politica nasce con internet?

I 5 stelle sono la traduzione – sul piano dell’organizzazione – della dimensione plastica, perennemente dinamica e in trasformazione della rete. Una rete che finisce per divorare sé stessa. Da questo punto di vista, può darsi che il web abbia risorse strepitose nell’affermare forme politiche rinnovate e un nuovo concetto di democrazia, ma per il momento l’impressione è di un netto impoverimento delle forme di partecipazione. Perché il web nella sua estrema semplificazione dell’argomentazione, a scapito della complessità, sembra negare i presupposti della cittadinanza in quanto tale. La cittadinanza è collegamento, partecipazione: nelle sezioni dei partiti, nelle piazze, nei comizi c’era una prossimità fisica, una fisicità della partecipazione che la rete annulla del tutto. Internet dà l’illusione di una sovranità, di una riappropriazione dell’autonomia politica a colpi di like, ma questa è in realtà una percezione forviante: nel momento in cui si sta chiusi in casa propria, non si conta niente, si finisce per essere parcellizzati, isolati. In questo nuovo rapporto tra mezzi di comunicazione di massa, forme di organizzazione politica e democrazia, vedo per il momento più i rischi che le potenzialità.

 

Molti oggi accostano la retorica degli attuali leader populisti, Matteo Salvini in testa, ad un rinascente fascismo. Lei vede analogie?

 Le analogie sono molte, ma sarei cauto nei confronti. Oggi l’Italia è molto diversa da quella del 1922. Quell’Italia non esiste più, non c’è più quella cultura, non ci sono più quei partiti. Piuttosto, quello che a me sembra davvero interessante è comprendere la discontinuità di questa destra con quella che si è via via affermata nella storia repubblicana. E ragionare sul perché Salvini stia passando dove Berlusconi non è riuscito. A differenza del leader di Forza Italia, Salvini punta sulla xenofobia e sull’etnocentrismo: lo slogan «prima gli italiani» non è mai risuonato con tanta forza nei settant’anni di storia repubblicana. Con questo slogan a essere negato è il tratto inclusivo della nostra democrazia che si era imposto contro l’ordine fascista basato sulla gerarchia e la divisione per compartimenti stagni del corpo sociale. Se poi facciamo riferimento alla sua costellazione di valori, assistiamo ad un ritorno della biopolitica, un valore tipico del fascismo storico come dimensione del potere politico che si esprime sui corpi dei sudditi, dei cittadini, e che Pasolini aveva teorizzato con molta forza  nel suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma, usando metaforicamente il sesso. Questa dimensione biopolitica riappare in Salvini, quando con evidente disprezzo fisico riduce gli immigrati a corpi da prendere o respingere, o quando definisce “palestrati” i migranti a bordo della nave “Diciotti”.

 

Non basta questo per evocare il fascismo?

 Senza dubbio siamo di fronte ad una destra profondamente aggressiva e autoritaria, e una potenzialità di violenza che al momento rimane solo verbale. Ed è questo a mio avviso è il punto: quello che oggi rende inapplicabile il confronto con il fascismo è l’assenza di violenza fisica. Mussolini senza violenza non avrebbe mai vinto. Il fascismo sconfisse la democrazia perché dal 1919 al 1922 distrusse militarmente il movimento operaio, facendo piazza pulita delle sezioni di partito, dei sindacati, mentre oggi non c’è niente in quella direzione. Terrei quindi fuori dal raffronto il fascismo mussoliniano, a patto però che non si ritorni ad una violenza di tipo squadristico o poliziesco. In tal caso le cose cambierebbero.

 

E il fatto che il ministro degli Interni abbia indossato spesso una divisa, quasi a creare un’identificazione tra lui e le forze di polizia?

Questa è un’altra delle cose da tenere attentamente sotto controllo, così come l’atteggiamento delle forze di polizia stesse e dei poteri sul territorio che rappresentano l’esecutivo, come i prefetti. Ho trovato sconcertante il linguaggio della questura in un recente sgombero di un centro sociale a Torino. Parlare degli arrestati come di “prigionieri” ci riporta ad un frasario inquietante che desta senz’altro allarme. Ricordo che il fascismo non sarebbe stato in grado di vincere senza la complicità degli apparti militari e di polizia.

 

Una certa retorica autoritaria sembra ormai farsi strada nella società senza registrare una reazione democratica tra le persone all’altezza della sfida. La democrazia si sta de-consolidando?

La dimensione di democrazia appiattita sulle pratiche di governo, in cui non c’è più una visione conflittuale, ma solo una visione da casta, chiusa e asfittica, ha fatto danni enormi. E oggi quello a cui assistiamo è in qualche modo una legge del contrappasso rispetto ad una prassi seguita negli ultimi venti anni sia dalla destra che dalla sinistra. Al contrario, la democrazia deve avere un appeal, coinvolgere non solo le menti ma anche i cuori delle persone. Deve ritornare ad essere quella che era nel ’45, qualcosa per cui ci si impegna, per la quale vale la pena partecipare. Paradossalmente uno degli effetti positivi – tra i tanti negativi – della presenza di Salvini nell’agone politico è stato quello di aver riattivato la partecipazione, senza la quale la democrazia muore di inedia.

 

Oggi insieme alle democrazie nazionali è rimessa in discussione la stessa idea di Europa.

 Negli ultimi anni  l’appiattimento ha riguardato non solo l’Italia ma anche l’Europa, che al contrario può essere un’idea in grado di mobilitare le persone. L’Europa è uno splendido orizzonte soprattutto per le coscienze dei giovani,  ma tradotta in una politica tecnocratica ed economicistica, perde ogni tipo di appeal e seduttività. L’Europa ha bisogno di essere rilanciata non come amministrazione dell’esistente, ma come un progetto per il futuro.

 

Vale ancora la pena battersi per questa Europa?

Sono rimasto molto colpito, qualche tempo fa, dalle celebrazioni per il centenario della prima guerra mondiale: dappertutto – in Germania, Francia, Austria, Italia – sono state pubblicate le lettere dal fronte, con una grande attenzione alla versione biografica e autobiografica della guerra. Per una volta, l’attenzione è stata rivolta non più alle battaglie, ai generali, alla geopolitica, alle strategie, ma a coloro che combatterono la grande guerra. Questo inedito punto di vista ci ha restituito un universo in cui il lutto, il dolore, la convivenza e poi la morte era comuni a tutti. È come se, già allora, fosse nata una comunità continentale, plasmata nel dolore e nel lutto che tutti in quella tragedia condividevano. Ecco, quella è un’Europa forte dal punto di vista della suggestione e del sentimento che suscita. Un’Europa per cui bisogna battersi.

 

Secondo lei ci sono ancora le condizioni per cambiare rotta, o siamo in una condizione di irreversibile deperimento della democrazia?

 A mio avviso le condizioni ci sono tutte. Esiste, al di là di ogni cosa, una condizione antropologica della democrazia, che vive comunque e che nessun despota riuscirà a cancellare. E questo è un discorso che vale per l’intera Europa. Per citare un caso, sono rimasto sorpreso dalle corrispondenze che arrivano dall’Ungheria: nonostante sia un Paese che ha conosciuto negli ultimi anni una deriva autoritaria e omofoba, a Budapest si dà battaglia per i diritti dei gay. Quella per i diritti e per la democrazia è una spinta che arriva molto forte dalle città, in alcuni casi in contrapposizione alle periferie. È come se ci fossero due Ungherie nello stesso momento, o due Italie o due Francie, che non passano più attraverso gli schieramenti tipici del Novecento, ma che vanno riconosciute. Fin quando ci sono, io non darei per persa la partita.

 

Da dove ricominciare?

Penso sia fondamentale in questa fase storica ritornare a fare i conti con sé stessi, con la propria coscienza, con la propria biografia. Ho seguito con molta attenzione i nuovi studi sulla Resistenza: ciò che mi affascina molto è il fatto che prima ancora della banda partigiana, prima ancora del movimento politico, ci fu la spinta dei singoli individui a riappropriarsi della propria sovranità. Ecco, a mio avviso, le nuove forme di organizzazione politica vanno cercate a partire dalle motivazioni individuali delle persone.

 

Come contribuire a questa ricerca del nuovo?

Dovremmo essere più congruenti nell’identificare i valori attorno a cui si è aggregata questa destra sovranista e populista e, rispetto ad ogni valore, trovare la forme di lotta che possano incalzarla da vicino. Faccio un esempio: se è vero che la biopolitica è l’essenza di questa destra populista salviniana, forse oggi vanno rivalutate anche forme di protesta e di gestione del conflitto che mettano in gioco i corpi, come ad esempio potrebbe essere lo sciopero della fame, forma di lotta non particolarmente amata dalla mia generazione.

 

Ma accanto alla riappropriazione della sovranità politica da parte degli individui, quale strategia pensa debbano mettere in campo la sinistra, le organizzazioni sindacali, e più in generale i movimenti collettivi per rilanciare la democrazia?

 Io penso che oggi, la rivendicazione economica da sola non basti. Guardiamo a due recenti: i pastori sardi legano la loro protesta solo al livello dei rimborsi che lo Stato gli propone, o c’è qualcosa di più sul piano dei valori? Oppure quando Renzi ha concesso gli 80 euro, a che tipo di società pensava? Cosa ben diversa, quando gli operai scendevano in sciopero negli anni Sessanta e Settanta, chiedendo la seconda categoria per tutti. Intorno a quella richiesta economica c’era l’affermazione di un valore come l’egualitarismo. Ecco, la sinistra, i sindacati, i movimenti collettivi, per contrastare la logica del semplice interesse corporativo, oggi devono riproporre esattamente questo: il legame tra la richiesta e i valori,