50 anni di Statuto dei Lavoratori

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Il 20 maggio segna sul calendario il cinquantesimo anniversario della legge 300 del 1970. Si tratta di una data spartiacque, non soltanto nel diritto del lavoro, ma anche nelle culture e nelle dinamiche delle relazioni sindacali. Gli aggiornamenti devono radicarsi nei princìpi costituzionali.

Presentiamo qui la riflessione critica su una grande conquista del Prof. Stefano Bellomo che insegna diritto del lavoro alla Sapienza Università di Roma.

La celebrazione del cinquantenario dello Statuto dei lavoratori conduce a interrogarsi, da un lato, sulla vitalità e sull’attualità del “progetto” statutario e, dall’altro, sulle nuove istanze che prefigurano un arricchimento di quel corredo legislativo in rapporto alle problematiche che in questa fase storica si agitano nell’universo composito e differenziato dei rapporti di lavoro. Sono questioni che sollecitano l’avvio di una riflessione sull’attualità dell’impostazione statutaria e sul possibile completamento e aggiornamento di quel disegno. Innovazioni che devono avere come punto di orientamento fondamentale le regole costituzionali, così come avvenne nel 1970.

Nella stragrande maggioranza delle sue componenti, l’impianto dello Statuto si rivela ancora profondamente “contemporaneo”, metaforicamente definibile come una lucida mappatura dei fabbisogni protettivi dell’individuo-lavoratore e dei presìdi e dei meccanismi protettivi finalizzati a soddisfarli. Questa considerazione non è contraddetta, ma per converso confermata, dagli interventi di aggiornamento che alcuni capisaldi protettivi dello Statuto hanno subìto nel tempo, in termini del tutto coerenti con la storicità del diritto. Penso, ad esempio, alle disposizioni in materia di controlli e in materia di mansioni dei lavoratori.

L’articolo 18. C’è un particolare capitolo delle garanzie individuali introdotte o rafforzate dallo Statuto: la disciplina dei licenziamenti. Ragionare sul suo originario assetto e sulla sua evoluzione induce necessariamente a evocare la figura dello studioso che dello Statuto è stato il principale artefice, Gino Giugni. Il suo progetto iniziale non prevedeva un sistema sanzionatorio dei licenziamenti individuali così incisivo e onnivalente come quello che poi venne incorporato nella legge. Il testo dell’articolo 18, che ha acquisito grande valenza simbolica, non era stato concepito come una tutela universale. Successivamente è divenuto l’architrave di un sistema di protezione probabilmente adeguato al momento storico in cui lo Statuto ha preso vita. Ma lo stesso Giugni fu tra i primi a riconoscere che – di fronte alle trasformazioni radicali che il paese si apprestava a vivere – anche l’articolo 18 non poteva rimanere un bunkerinattaccabile. Già in un’intervista dei primi anni Novanta rilasciata a Pietro Ichino, prefigurava la revisione della disciplina sanzionatoria contro i licenziamenti illegittimi. In sostanza: passare dall’ipotesi sanzionatoria univoca della reintegrazione nel posto di lavoro a una divaricazione tra le misure punitive adottabili contro i licenziamenti connotati da maggiore odiosità sociale e meritevoli della massima sanzione (i licenziamenti discriminatori e ritorsivi) e le diverse conseguenze collegabili a quei recessi datoriali giudizialmente valutati non adeguatamente giustificati ma comunque fondati su fatti e ragioni reali. Veniva, in sostanza, anticipata l’idea, che troverà la sua concreta realizzazione tra il 2012 e il 2015, che per questa seconda tipologia di licenziamenti ingiustificati potesse essere introdotta una categoria di sanzioni meramente risarcitorie.

La rappresentanza dei lavoratori. Lo Statuto disvela la sua modernità anche attraverso i cambiamenti riguardanti le disposizioni relative alla rappresentanza dei lavoratori. Ciò nonostante, sulla completezza del quadro regolativo in materia di sindacato, oggi vanno probabilmente sviluppate alcune riflessioni. Esse spaziano oltre l’orizzonte statutario e sollecitano forse un ripensamento di quell’approccio in base al quale uno dei tratti qualificanti della legge del 1970 sarebbe stato quello di propugnare una visione del fenomeno sindacale in larga parte esuberante rispetto al quadro costituzionale.
Nel 1969, in un’intervista rilasciata all’Avanti nella fase di elaborazione dello Statuto, Giugni evidenziava l’opportunità di separare i temi statutari dalle tematiche relative all’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione. Ma anche questa è una visione che va contestualizzata. L’impostazione di Giugni fu coltivata in un momento in cui l’impronta dei soggetti confederali era netta e profonda. Questa capacità di orientamento degli interessi collettivi è perdurata per molti decenni, fino al termine della stagione della concertazione. Poi, l’egemonia e la capacità interpretativa degli interessi collettivi da parte delle confederazioni storiche hanno lasciato intravedere alcune falle, alcuni punti di dispersione.

L’efficacia dei contratti. Se, nel momento in cui lo Statuto venne concepito, il tema della rappresentanza dei lavoratori in azienda e quello della generale efficacia dei contratti collettivi potevano essere dissociati, oggi dobbiamo chiederci se queste premesse siano ancora valide. E, quindi, se per mantenere la sua vitalità lo schema statutario e l’assetto dei diritti sindacali non necessiti di un completamento “esterno”: cioè una legge sulla rappresentanza e sull’efficacia dei contratti collettivi. Questa complementarietà richiede di essere riconosciuta e di essere declinata legislativamente recependo le indicazioni e gli orientamenti che le parti sociali esprimono da diversi anni. Mi riferisco, in particolare, al testo unico sulla rappresentanza elaborato nel 2014 che sta vivendo una complessa e graduale implementazione, ma che richiede necessariamente una trasposizione legislativa.

Il salario minimo. Ad attestare la necessità di questo completamento è anche, in maniera indiretta, il dibattito in corso sul salario minimo. Si è molto ragionato su questo ulteriore tassello di protezione, che dovrebbe essere inserito nell’ordinamento per fronteggiare l’ormai intollerabile frammentazione della contrattazione collettiva, dei troppi punti di cedimento alle spinte concorrenziali che provocano una fuga dall’associazionismo datoriale prima ancora che sindacale, e per arginare i tentativi di favorire la diffusione di prodotti contrattuali di dubbia genuinità e di chiara propensione ribassista.  I progetti elaborati sul tema vorrebbero affidare la fissazione dei salari minimi alla capacità autoregolativa del sistema contrattuale. Ma non si può non immaginare di dover dotare il sindacato degli strumenti giuridici adeguati per poter assolvere questo compito. E questo passa per la compiuta regolazione legislativa della rappresentanza che porti a un’integrazione tra il livello aziendale e gli ambiti più estesi delle categorie o dei settori. I contesti, cioè, in cui i sindacati meritano di ricevere l’attribuzione di effetti più profondi e diffusi ai contratti collettivi nei quali si riversano i risultati della loro più equilibrata e incisiva azione negoziale.

Lo Statuto è sicuramente un pilastro ancora saldo nella sua architettura e nella sua idea concettuale, ma per consentirgli di realizzare pienamente i valori costituzionali, esso va collocato in un quadro di più ampia ed efficiente strumentazione che valorizzi ulteriormente una cooperazione tra legislatore e parti sociali che risulti, finalmente, in piena sintonia con il dettato costituzionale.