Ucraina e Palestina. Due guerre, un futuro ignoto

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Il conflitto tra Mosca e Kiev e quello tra Israele e Hamas sono diversi tra loro legati però da interessi non sempre chiari destinati a ridisegnare i rapporti di forza internazionali. Di cosa potrà accadere parliamo con Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”, la più importante rivista italiana di geopolitica

Direttore, l’Ucraina è un paese distrutto, la guerra è in stallo. L’oltranzismo militare che ha contrassegnato Europa e Stati Uniti fino a qualche mese fa, tagliando ogni possibile via diplomatica, potrebbe risultare un errore senza via di ritorno?

«Un errore tattico e strategico che non rimarrà senza conseguenze. Oggi l’Ucraina è un paese tecnicamente fallito, che dipende finanziariamente dall’Occidente ed è allo stremo dal punto di vista demografico, avendo perso quasi metà della popolazione dall’inizio del conflitto. Vince Putin? Di sicuro perde Zelensky e più di lui l’Ucraina, che non recupererà i territori persi e che rappresenta un costo politico ed economico per l’Europa, visto il disimpegno americano. La ricostruzione è stimata dalla Banca mondiale in cinquecento miliardi di dollari e toccherà all’Europa mettervi mano».

Riavvolgiamo il nastro e riandiamo ai primi mesi di guerra. Tra marzo e aprile 2022, l’accordo tra ucraini e russi sembrava possibile. È così?

«L’idea di sconfiggere la Russia si è formata durante la guerra piuttosto che precederla. Gli americani non hanno mai avuto l’intenzione di condurre una guerra diretta alla Russia. Già prima dell’Ucraina c’era stato un colloquio diretto tra il capo della Cia e Putin, in cui più o meno ci si era messi d’accordo per una guerra limitata. Gli americani avevano tratto l’impressione che i russi avrebbero preso Kiev e gran parte dell’Ucraina. L’opzione si riduceva a costruire una ridotta ucraina nella zona di Leopoli da cui lanciare azioni di guerriglia. Fin dai primi giorni però, si è capito che l’offensiva russa si sarebbe arenata, a quel punto nell’establishment americano e ancor più in quello inglese si è fatta strada l’idea che quella era l’occasione per dare una lezione alla Russia dalla quale non si sarebbe più ripresa in tempi prevedibili. E quindi hanno praticamente ordinato agli ucraini – che avevano raggiunto un accordo di massima per sospendere le ostilità e restare neutrali in cambio del ritorno dei territori occupati nel Donbass – di continuare a combattere. Ma non avevano calcolato la reazione russa che ha reso inespugnabili i territori conquistati. L’errore strategico successivo è stato di credere che l’Ucraina potesse uscire vincitrice da una guerra di attrito».

Possiamo dire che l’Unione europea ha giocato un ruolo subalterno, accettando un’agenda dettata da Stati Uniti e Gran Bretagna?

«Più che di Unione europea, parlerei di Nato o di impero americano in Europa. La realtà è che lo schieramento Nato, tanto per cambiare, ha dimostrato interessi diversi, e a volte contrastanti. La Turchia, che ha il secondo esercito dell’alleanza, ha giocato una partita ambigua, mantenendo un ruolo equidistante, armando l’Ucraina con i droni ma guardandosi bene dal sanzionare la Russia. In mezzo, posizioni diverse: la Germania e la Francia pronte a riaprire i canali con la Russia, e paesi come la Polonia che hanno cullato a lungo l’idea non solo di sconfiggere la Russia ma di puntare a una sua implosione. La situazione volge a favore della Cina, perché la Russia mantiene territori, tra cui la Crimea, ma il paese del dragone diventa più influente sull’ex impero sovietico».

L’adesione dell’Ucraina all’Unione europea è un risarcimento per il presidente Zelensky?

«È un gesto simbolico che può avere un valore morale, ma in realtà cova un certo grado di immoralità: nel momento in cui l’Ucraina sta affogando le viene promesso che, magari fra qualche decennio, entrerà nell’Unione europea. Ma sono convinto che non pochi paesi dell’Unione, sotto sotto, abbiano fatto il tifo per l’Ungheria che si è opposta al finanziamento di cinquanta miliardi per tenere in piedi un paese in macerie. Il rischio ora è che l’Ucraina diventi un buco nero, afflitta da una situazione di conflitto permanente e difficilmente ricomponibile tra un impero che si disintegra e una nazione che di quell’impero faceva parte e che vuole essere pienamente indipendente».  «Tra israeliani e palestinesi al momento è totalmente esclusa la soluzione due popoli due Stati».

Gaza sembra un altro dei tasselli di quella guerra mondiale a pezzi di cui ha parlato papa Francesco. Esiste un legame tra i due conflitti?

«Sono storie diverse ma collegate, se non altro perché entrambe al centro degli interessi delle grandi potenze: Stati Uniti, grandi protettori di Israele e un po’ meno dell’Ucraina, e Russia che, pur essendo ai minimi termini nei rapporti con Israele, conta due milioni di russi tra i cittadini israeliani. Israele è connessa al sistema dell’area del Levante, del Mar Nero e del Caucaso, che sono aree di primario interesse russo ma anche cinese, che dall’Ucraina trae importanti risorse alimentari e dal Medio Oriente quelle energetiche».

L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la reazione di Israele segnano forse anche il momento più basso del diritto umanitario internazionale. Vari organismi hanno denunciato la reazione indiscriminata, a scapito dei civili, e forte è l’indignazione nel mondo. Ma qual è la logica dietro tutta questa violenza?

«Bisogna partire dal presupposto che, da quando esiste, Israele non ha altra strategia che l’autopreservazione. Questa volta, però, ha probabilmente commesso un grave errore, accettando di considerare Hamas come una sorta di Stato invece di un’organizzazione, sia pur importante, emanazione dei Fratelli musulmani, con una base sociale di assistenza, che ha un braccio politico e uno armato che spesso non si parlano. Ridurla al solo terrorismo è un errore, così come lo è considerare Hamas capace di marciare su Gerusalemme e minacciare l’esistenza stessa di Israele. Come se il 7 ottobre fosse una riedizione della guerra del Kippur. Ma non è soltanto questo: per gli strateghi e i politici più estremisti è anche un’occasione per risolvere una volta per tutte la questione palestinese, spianando Gaza e rendendola inabitabile e costringendo la popolazione palestinese della Cisgiordania ad andarsene. In questa situazione è totalmente esclusa la soluzione due popoli, due Stati».

È una situazione che Stati Uniti e paesi arabi possono accettare?

«I leader arabi, a cominciare dai sauditi, non vedono l’ora che questa guerra finisca per riprendere i loro traffici commerciali, finanziari e militari con Israele. Quando la guerra finirà, gli accordi di Abramo potrebbero ritornare a galla. Per quanto riguarda gli Stati Uniti va compreso lo storico legame speciale con Israele. Ma qualcosa sta cambiando anche lì: una parte dell’establishment si sta schierando contro Israele e i rapporti tra un’amministrazione statunitense e la leadership israeliana non sono mai stati così tesi».

L’articolo è stato pubblicato nel numero di febbraio del nostro mensile. Per abbonarti alla rivista, clicca qui