Dario fa un lavoro molto particolare. È un infermiere che si occupa di cure palliative domiciliari. Ovvero accompagna le persone al termine della propria vita. Il Covid ha cambiato il suo lavoro e anche la vita dei suoi pazienti. “Mi sono preso il Covid”. Dario per fortuna è potuto restare a casa. “Me la sono vista brutta: avevo un polmone che non ventilava. Ho preso antibiotici e cortisonici e sono guarito. Ma è stata dura. Anche perché sono stato male per più di venti giorni”.
In quei lunghi venti giorni Dario non ha potuto portare cure né conforto ai pazienti che assiste nel distretto di Asolo, in provincia di Treviso: “Io e i miei colleghi della équipe cure palliative prestiamo assistenza ai pazienti nel fine vita (oncologico e non) e ai pazienti che sono ancora sottoposti a terapie oncologiche. Accompagniamo non solo loro, ma anche le loro famiglie. Non si tratta soltanto di gestire i sintomi, ma soprattutto di creare le condizioni ambientali e relazionali affinché il fine vita sia gestibile e sopportabile a domicilio”.
Il Covid può colpire tutti, anche quelli che dovrebbero stare accanto a persone che si trovano in un momento drammatico: “Il nostro compito è quello di prendere in carico il paziente dall’inizio alla fine”. Doversi assentare perché contagiati dal virus Covid spezza la continuità di questo processo articolato. “È il rapporto continuo con il paziente e la sua famiglia che ci consente di gestire una complessità che è clinica ma soprattutto relazionale”.
Le cure domiciliari funzionano anche per tanti altri pazienti, come gli anziani non autosufficienti: “Bisogna consentire alle persone di curarsi a casa propria. Le persone vivono meglio e il sistema risparmia. Certo, servono investimenti, a lungo termine, ma soprattutto serve una visione”. Soltanto così possiamo spostare il centro della presa in carico dall’ospedale al territorio.
Per spiegare meglio le potenzialità di un sistema del genere, Dario spiega cosa accade nel suo distretto. Qui la medicina territoriale funziona: “Non ci sono solo le cure palliative, ma anche l’assistenza a persone non autosufficienti e anche servizi di medicina proattiva e preventiva. C’è un gruppo di infermieri che per esempio si occupa di scompensi cardiaci. Allora si pianificano controlli periodici, con telefonate e poi monitoraggio del peso e delle analisi. Da quanto esiste questo servizio di prevenzione, il numero di ricoveri per scompensi cardiaci si è ridotto”. È la dimostrazione che la medicina territoriale funziona.
Prevenzione, medicina domiciliare: parole magiche. Si tratta di esperienze sporadiche che però danno i loro frutti. Non quando però il personale sanitario viene dirottato su altro. Come sta accadendo ora: “Tanti infermieri sono stati spostati a fare tamponi e occuparsi di tracciamento”.
Ad aggravare la situazione ci sono i contagi tra gli infermieri. Tanti sono positivi al Covid, “quindi ci sono ancora meno risorse per il territorio e abbiamo dovuto ridurre gli interventi domiciliari”. Ma qui in gioco c’è la vita di chi è arrivato alla fine del percorso e dei suoi familiari. E tanti anziani non autosufficienti. “Per quel che è possibile si è cercato di garantire le cure palliative, ma tanti anziani sono rimasti da soli, tanto più che anche le Usca sono state per lo più dirottate a fare i tamponi e i medici di medicina generali sono rimasti soli a fare tutto”. Come al solito, personale scarso. Risorse insufficienti. I problemi si ripropongono anche qui, come altrove.