Referendum. Le ragioni del Sì e quelle del No in un confronto promosso dallo Spi Cgil

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Ieri, a Roma, con il teatro Brancaccio gremito in ogni ordine di posti, i costituzionalisti Giovanni Maria Flick e Franco Bassanini hanno dato vita a un confronto serrato, rigoroso, ma anche a una lezione di rispetto per chi, invece, è ormai dedito al tifo.

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Mancano poco più di due settimane al 4 dicembre, giorno in cui gli italiani potranno esprimere parere favorevole o contrario al quesito referendario con il quale si propone la riforma di 47 articoli relativi alla seconda parte della Costituzione. Un intervento articolato e complesso, che i decibel assordanti di questi giorni, a sostegno del Sì e del No, rendono sempre meno comprensibile. Per uscire dal tunnel di confronti fatti spesso di colpi bassi, offese e schieramenti preconcetti, lo Spi Cgil ha promosso un dibattito tra due costituzionalisti, entrambi ex ministri della Repubblica, schierati su fronti opposti: Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, che voterà No, e Franco Bassanini, presidente della Fondazione Astrid, schierato per il Sì. L’appuntamento, moderato da Lavinia Livara, giornalista della Repubblica che da mesi segue il dibattito sulla riforma costituzionale, si è tenuto a Roma, all’interno di un teatro, il Brancaccio, gremito in ogni ordine di posti.

Due professori, Flick e Bassanini, che hanno espresso le loro posizioni con chiarezza e che hanno riconosciuto nel contenuto del quesito referendario, analizzato in tutti i suoi aspetti, pregi e difetti. «Un contributo per capire la loro opinione e per comprendere di più su un tema complesso e delicato come quello della Riforma costituzionale», aveva auspicato Il segretario dello Spi Cgil, Ivan Pedretti in apertura dei lavori. «Sapete tutti – ha affermato Pedretti – che la Cgil ha espresso il proprio giudizio in merito al quesito referendario. Penso però che sia sempre cosa utile e buona approfondire un argomento che un po’ troppo spesso si trasforma in un confronto tra tifosi. Su un tema come quello della Costituzione sarebbe invece utile evitare le tifoserie, provare ad ascoltare, per poi scegliere tranquillamente cosa e come votare, che strada intraprendere». «Forse – ha continuato Pedretti – sarebbe stato necessario più sobrietà e più responsabilità dell’insieme della politica, per evitare una rottura storica del paese. In una vicenda così fatta, ci sarebbe la necessità di avere un paese unito, anche in virtù di ciò che è successo oltre oceano e della condizione di difficoltà in cui versa la stessa Europa. Il 5 dicembre, che vinca il Sì o il No, avremo comunque il compito di rimettere insieme l’Italia e di provare a ridisegnare al meglio anche quelle parti della Carta costituzionale che hanno in qualche modo separato la posizione dei cittadini».

L’esigenza di difendere la democrazia, di attuare i princìpi e i valori della prima parte della Costituzione, impone di adeguare l’assetto istituzionale, delineato nella seconda parte della Carta, ai mutamenti di scenario e di contesto intervenuti. Parte da qui Bassanini per motivare il suo Sì al quesito referendario sul quale voteremo il 4 dicembre.

Per il professor Flick, i rimedi trovati rischiano invece di produrre più danni che benefici: «Le conseguenze negative di questa riforma – dice motivando il suo No – sono largamente superiori ai suoi pochi aspetti positivi, in particolare per quanto riguarda l’obiettivo della semplificazione che si intende perseguire. In primo luogo mi sembra che la riforma del “bicameralismo perfetto” – per quanto necessaria – si risolverà in un “bicameralismo mal fatto” che complicherà le cose più di quanto lo siano già adesso».

«Ben al di là delle sorti di un governo e di un premier – ribadisce il presidente della Fondazione Astrid – le questioni su cui il referendum deciderà sono tra quelle cruciali per il futuro del paese: se l’assetto costituzionale pensato dai costituenti settant’anni fa sia o meno ancora adeguato a tutelare i diritti dei cittadini e gli interessi del paese in un mondo che è, da allora, radicalmente cambiato; se la configurazione che allora fu data agli strumenti della nostra democrazia consenta o meno di mantenere nelle mani del popolo sovrano le decisioni fondamentali che incidono sulla vita, sul lavoro e sulle libertà degli italiani, sull’indipendenza del paese, sulla crescita e competitività della sua economia; se queste istituzioni siano e restino ancora le più adeguate, in tempo di globalizzazione e di scelte da attuare con grande celerità, a difendere, anzi ad attuare, quei princìpi e valori che sono consacrati nella prima parte della Costituzione come fondamento della convivenza comune e dell’identità nazionale. La proposta di riforma contenuta nel quesito referendario, non stravolge la Costituzione e, anche se non contiene esattamente “tutto ciò che serve”, contiene molte cose buone: il superamento dell’anacronistico bicameralismo paritario; la differenziazione dei procedimenti legislativi tra Camera e Senato; la razionalizzazione dei poteri delle Regioni; il potenziamento del sistema delle garanzie; il riequilibrio dei poteri normativi del governo e la riduzione dei costi della politica».

«Mi lascia perplesso il modo di formazione del nuovo Senato, attraverso un ambiguo mix tra la designazione da parte dei Consigli regionali e una non meglio precisata indicazione da parte degli elettori», è la risposta del presidente emerito della Corte Costituzionale. «Un secondo profilo di merito riguarda le funzioni eterogenee e disorganiche via via attribuite a quel Senato. Il terzo profilo riguarda la complessità e il numero (sette o otto; per qualcuno addirittura dieci) dei procedimenti legislativi per l’emanazione delle leggi da parte della Camera dei deputati e del Senato, nelle ipotesi di leggi che secondo la riforma richiedano l’intervento di entrambi, sia pure in modi e con competenze diversi. È facile prevedere gli intralci, i contrasti, i conflitti di attribuzione che ne deriveranno tra le due Camere e che impegneranno la Corte costituzionale. Mi lascia egualmente perplesso l’altro nucleo della riforma: il rapporto tra Stato e Regioni e la divisione delle competenze legislative tra di loro. Nel 2001 – per ragioni essenzialmente politiche; con una maggioranza risicata; nella fretta – si introdusse una riforma del titolo V della Costituzione che decentrava in maniera eccessiva il potere legislativo. Si realizzò in tal modo una fonte pressoché inesauribile di conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni. Per ovviare a quell’errore se ne compie ora uno esattamente opposto: un eccesso di accentramento con lo stesso rischio di produrre conflitti di attribuzione e quindi di complicare notevolmente il rapporto tra Stato e Regioni. Aggiungo infine che non è invece stato toccato in alcun modo il problema delle Regioni a statuto speciale, che avrebbe invece richiesto una messa a punto rispetto al loro assetto costituzionale».

Tra i due il confronto è serrato, rigoroso, ma è anche una lezione di rispetto per chi invece è ormai dedito al tifo. I punti di contatto? L’abolizione del Cnel e, fuori dal quesito, l’avversione per quella legge elettorale, l’Italicum, approvata a colpi di fiducia appena un anno fa e che ora sembra non avere più padri. Dinanzi a loro, la platea dei pensionati dello Spi segue il confronto con grande attenzione. Per questa volta, al di là delle convinzioni di ognuno, la capacità di riflessione fa assaporare a tutti i presenti il gusto dell’esercizio della democrazia.