venerdì 19 Aprile 2024
Home News Pensioni. A che punto siamo?

Pensioni. A che punto siamo?

0
Pensioni. A che punto siamo?

Scala mobile dei pensionati scongelata, nuova quattordicesima a luglio, no tax area parificata: i primi risultati sono arrivati. Ma i problemi restano: pensione di garanzia per i giovani, età pensionabile e aspettativa di vita, riconoscimento del lavoro di cura per le donne. Ecco perché la vertenza rimane aperta.

di Massimo Franchi 

Riassumiamo: sabato 2 dicembre la Cgil è scesa in piazza a Roma, Torino, Bari, Cagliari e Palermo per protestare contro l’esito del confronto con il governo sul tema delle pensioni considerato “insufficiente”. Lo slogan scelto per la manifestazione “I conti non tornano!” spiega bene la posizione della Cgil che chiede al governo di «cambiare il sistema previdenziale, sostenere sviluppo e occupazione, garantire futuro ai giovani».

Le rivendicazioni puntano a «bloccare l’innalzamento illimitato dei requisiti per andare in pensione, garantire un lavoro dignitoso e un futuro previdenziale ai giovani, superare la disparità di genere e riconoscere il lavoro di cura, garantire una maggiore libertà di scelta ai lavoratori su quando andare in pensione». E ancora, «favorire l’accesso alla previdenza integrativa e garantire un’effettiva rivalutazione delle pensioni».

I risultati del 2016. Nella lunga trattativa con il governo, Cgil, Cisl e Uil nel settembre 2016 avevano già portato a casa un importante risultato per tutti i pensionati. Grazie a quell’intesa, dal 2019 tornerà il cosiddetto sistema di Prodi per il calcolo della rivalutazione annuale delle pensioni: saranno rivalutate al 100 per cento quelle sotto tre volte il minimo, al 90 per cento quelle da quattro a cinque volte il trattamento minimo e al 75 per cento quelle superiori a cinque volte il minimo. Il tutto in base agli scaglioni per cui il ricalcolo avviene solo per la parte che eccede i vari scalini, mentre oggi   si usa il sistema ereditato dalla riforma Fornero che rivaluta solo parzialmente le pensioni. Tornare al sistema in vigore prima del decreto Salva Italia del 2011, consente adeguamenti più pesanti. Un cambiamento chiesto e voluto con forza dallo Spi Cgil, insieme a Fnp Cisl e Uilp Uil, che si aggiunge ai risultati conseguiti nel 2016 sulla quattordicesima e sulla no tax area.

L’esito negativo del 2017. Dieci giorni di tavoli, tanto è durata la trattativa tra governo e sindacati ripresa nel 2017, come era previsto nel verbale d’intesa firmato l’anno prima che portò ai risultati visti prima. Ma questa volta i passi avanti hanno riguardato solo una piccola estensione delle categorie di lavori “gravosi” –alle undici già previste per l’Ape sociale (operai dell’industria estrattiva e dell’edilizia; gruisti; conciatori; macchinisti; camionisti; infermieri con turni notturni; addetti all’assistenza di persone non autosufficienti; insegnanti di nidi e materne; facchini; addetti alle pulizie; operatori ecologici) si aggiungono altre quattro categorie: operai e braccianti agricoli, marittimi, addetti alla pesca, siderurgici. Tutti questi lavoratori dal 2019 andranno in pensione di vecchiaia a 66 anni e sette mesi (e con 42 anni e dieci mesi di contributi invece che 43 anni e tre mesi), invece che a 67 anni come previsto dal meccanismo che lega l’aspettativa di vita all’età pensionabile. Sempre però che soddisfino i requisiti: sette anni di mansione nei dieci anni precedenti il pensionamento e almeno trent’anni di contributi (una chimera per i lavoratori agricoli).

L’età pensionabile. La proposta del governo messa sul tavolo della trattativa prevede poi la revisione strutturale del meccanismo di calcolo dell’adeguamento alla speranza di vita che  sarà biennale e non più triennale e lo scatto avrà «un limite massimo di tre mesi» (ma questo era già previsto dalla riforma Fornero). Si prevedono   poi due commissioni: una presieduta dal presidente dell’Inps per «la rilevazione su base scientifica della gravosità delle occupazioni» e una presieduta dal presidente dell’Istat sulla «comparazione della spesa previdenziale» per tentare di separare assistenza e previdenza, storica battaglia dei sindacati.

Lavoro di cura. Sul riconoscimento previdenziale del lavoro di cura delle donne il governo si è impegnato a fissare uno sconto (un anno per ogni figlio fino a un massimo di due), ma la norma vale solo per le donne che possono accedere all’Ape sociale.

Pensione di garanzia. Niente invece è stato previsto per la cosiddetta pensione di garanzia per i giovani, un meccanismo che possa assicurare un assegno dignitoso ai milioni di trentenni e quarantenni che sono nel mondo del lavoro con contratti precari e contributi quindi discontinui.