Dramma rsa, parla un’operatrice

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Quella che pubblichiamo è la testimonianza di un’operatrice in una rsa della provincia di Lodi. Lo facciamo perché si comprenda bene cosa sta accadendo all’interno di queste strutture.

L’immagine che non riesco a togliermi dalla testa è quella di una delle nostre ospiti, che conoscevo molto bene. Si chiamava M. Aveva cominciato a stare male a marzo. Inappetenza, confusione, poi la febbre alta. La febbre è andata avanti per giorni. Finalmente i medici della struttura hanno deciso di chiamare il 118. Quando l’ho accompagnata all’ambulanza, le ho promesso che sarebbe presto tornata da noi. Ieri ho saputo che non ce l’ha fatta.

Io invece sono A.S., un’operatrice sociosanitaria di una Rsa del lodigiano. Nella nostra struttura c’erano quasi 200 degenti prima che l’epidemia da covid si abbattesse come una tempesta su di noi. In un solo mese ne abbiamo persi 40. Ma tra questi solo 2 sono ufficialmente deceduti a causa del coronavirus. Sono i pazienti morti in ospedale. Per gli altri – la stragrande maggioranza – morti tra le quattro mura della rsa, nessuno si è sognato di fare il tampone, quando forse si poteva fare ancora qualcosa per salvarli. Ma noi sappiamo che il virus è arrivato. Li lasciano lì, sperando forse di poterli curare e intanto la malattia fa il suo corso.

Si tratta in larga parte di persone che hanno tra i sessanta e i settanta anni, non troppo anziane quindi. E con cui abbiamo un rapporto molto particolare: con loro condividiamo la nostra vita. Non restano due settimane e poi vanno via. Sono persone che noi curiamo, a cui ci affezioniamo, perché passiamo con loro tantissime ore al giorno, per anni interi. Anche ora, che ho una mascherina, un camice e gli altri dispositivi di protezione individuale, e faccio fatica a riconoscere me stessa, loro mi riconoscono dalla voce.

L’unica cosa che posso dire è che nessuno ci ha supportato, nemmeno la nostra azienda. Io faccio parte della Rsu della struttura, ho cercato di farmi sentire, ma invano.

Siamo straziate. Abbiamo l’impressione che nessuno possa capire la nostra sofferenza. Vederceli andare via così, uno dietro l’altra, ti porta a livello psicologico a dire: basta, basta, basta.

Il primo caso accertato è stato all’inizio di marzo. Questo ospite ha cominciato a stare male e noi abbiamo attivato la procedura per il ricovero. Aveva appena 68 anni. Dopo il ricovero è stato accertato che questo paziente avesse il covid. Il nostro ospite è morto morto pochi giorni dopo. Da quel momento in poi è stato un delirio. Per un mese abbiamo avuto casi di febbri a tappeto, senza sosta. E uno dopo l’altro in molti se ne sono andati.

La mia rsa ha due strutture, e dopo il primo caso nell’altra sede, abbiamo chiesto di chiudere l’accesso agli ospiti anche nella nostra. Ma per alcune settimane, si è permesso che gli ospiti continuassero ad accedere dall’esterno.

All’inizio, non avevamo dispositivi di protezione individuale, che sono arrivati solo a metà marzo. Abbiamo lavorato con mascherine di carta e guanti. E già eravamo avanti con la situazione. In clinica, ho pregato la direttrice sanitaria di fare il tampone al personale. Niente. Nessun tampone.

La direttrice ha continuato a ripeterci i messaggi tranquillizzanti che al principio di questa storia ribadivano anche le autorità: non è niente, è solo un’influenza. Aspetto il suo rientro per chiederle: sei sicura che era proprio un’influenza? E’ stata la prima ad abbandonare la nave. Noi invece siamo ancora qui.

Metà dei miei colleghi ha manifestato i sintomi della malattia. Io stessa mi sono ammalata, portando l’infezione a casa. Per settimane ho combattuto la mia personale battaglia. L ‘influenza mi ha ribaltata completamente, non riuscivo a tenere nemmeno una bottiglia di acqua in mano per prendere la tachipirina. Non sentivo sapori e avevo questa tosse brutta, con la febbre a 39,5. Ancora adesso ho questa confusione in testa. Mangio, ma non sento i sapori che dovrei sentire. Poi questa stanchezza, spossatezza. Cerchi di reagire ma ti devasta.

E la cosa più brutta è che io la malattia l’ho portata a casa e mio marito ha avuto la polmonite. A 69 anni. Quando è stato ricoverato in ospedale, il medico ha detto che non aveva bisogno del tampone. Ho chiesto: come fa a sapere che mio marito non ha il covid? Ho spiegato che sono una operatrice sanitaria che lavora in casa di riposo, dove ci sono casi già accertati. Tutto inutile.

Sono arrabbiata. Siamo stati lasciati soli di fronte a uno tzunami. Io credo sinceramente che nessuno di noi, e questo vale anche per chi in questo momento è al fronte in ospedale, è preparato a una cosa del genere. Perché è davvero una mattanza. Una mattanza.
Nel nostro caso, la sofferenza è ancora maggiore perché le persone che se ne vanno, le conosciamo da tempo.

Non puoi arrivare ogni giorno alla consegna, e sentire è morto Tizio, è morto Caio. Nel mio ultimo turno di notte, le salme nella chiesa della struttura erano sei. Sei morti in una notte.
E’ tutto pazzesco. E anche la procedura che dobbiamo seguire in caso di decessi, lo è. A livello di testa impazzisci.

Queste persone si potevano salvare? Ho la presunzione di pensare che alcune di queste persone si, si potevano salvare. In alcuni casi il decorso è rapido, ma in altri casi non lo è. C’è una signora, che è ancora lì, e so che è vicina alla fine. Questa signora ha 80 anni, ma era in gamba, abbastanza autosufficiente. Facevamo solo igiene intima, ma per il resto non aveva bisogno dell’assistenza. Sta così da più di due settimane. Io penso che se questa persona fosse stata mandata in ospedale, secondo me si sarebbe potuta salvare. Ora è lì che sta ancora lottando.

E’ brutto da dirsi ma il problema è questo: quando gli ospiti stanno male, noi operatori siamo i primi a battere i piedi: “E’ inutile tenerlo qui, noi per primi non abbiamo le attrezzature adatte per far fronte a questa situazione”. Ma la procedura per attivare il 118 viene attivata poche volte dai medici della struttura. Perché? Noi operatori ci arrovelliamo per capire perché di fronte a questi casi, la procedura viene attivata così di rado. Forse pensano che con la terapia antibiotica possano fare qualcosa, ma che senso ha tentare una terapia in struttura, e non portarli in ospedale, quando si conosce il decorso di questa malattia? Non si tratta di persone di 90 anni, ma ancora relativamente giovani di 68, 70, 72 anni. Tutto questo è incomprensibile.