mercoledì 8 Maggio 2024
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«Dalla finestra dell’ospedale»

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«Dalla finestra dell’ospedale»

Dalla stanza di un ospedale spagnolo, ricoverato per aver contratto il Corona virus, Joaquim González Muntadas (sindacalista delle Comisiones Obreras) scrive per cinque giorni, su facebook, un diario che è un inno alla vita. Lo pubblichiamo per sua gentile concessione.

di Joaquim González Muntadas (sindacalista delle Comisiones Obreras)

traduzione dallo spagnolo di Pietro Masiello

Lunedì 30 marzo. Buongiorno dalla stanza dell’ospedale. Ieri sera, domenica, dopo che mi erano state fatte delle lastre ai polmoni, i medici hanno deciso di ricoverarmi. E ora siamo in attesa di tutto ciò che ci sarà da fare, di sicuro tanto, per sconfiggere il coronavirus che ho in corpo. Mi sento sicuro e molto ben assistito. Fiducioso che tutto andrà bene e, soprattutto, molto grato per il lavoro eccellente e per come vengo seguito da tutto il personale sanitario. Un bacio a tutti amici e amiche. Se sarò dell’umore giusto, ogni mattina farò un breve resoconto dell’esperienza della giornata.

Martedì 31 marzo. Eccomi qui, mi sento come se fossi l’unico malato che c’è nell’ospedale.

Mi prelevano il sangue, mi controllano i parametri vitali, la febbre, la pressione arteriosa…

Mi fanno le iniezioni, con delicatezza, quasi con amore, e senza farmi male.

Da mangiare mi hanno dato lenticchie e pesce, yoghurt, mandarini, minestra, hamburger…

Riempiono la stanza di sorrisi quando entrano – vestite di plastica, con visiere, con cuffie come se si fossero travestite da astronaute in un giorno di Carnevale – per pulire la stanza e rifare il letto.

E mi soffermo a pensare alla fortuna che ho, al di là di come tutto questo finirà, nel sentire, in circostanze così difficili, questo sincero, reale e autentico calore umano.

E mi domando quale sia il segreto che spinge queste persone a comportarsi così. E mi rispondo:

L’IMPEGNO. È L’IMPEGNO che fa la qualità delle organizzazioni, delle aziende, dei gruppi di amici, delle nazioni. In definitiva, fa o non fa la qualità di ogni lavoro umano.

E che cos’è l’IMPEGNO?

Più o meno è:

CIÒ CHE TRASFORMA UNA PROMESSA IN REALTÀ

È LA PAROLA CHE PARLA CON CORAGGIO DELLE NOSTRE INTENZIONI

È L’AZIONE CHE PARLA PIÙ FORTE DELLE PAROLE

È TROVARE IL TEMPO QUANDO NON LO SI HA

È MANTENERE CIÒ CHE SI È PROMESSO QUANDO LE CIRCOSTANZE DIVENGONO AVVERSE

È LA MATERIA CON CUI SI FORGIA IL CARATTERE PER POTER CAMBIARE E MIGLIORARE LE COSE

È IL TRIONFO QUOTIDIANO DELL’INTEGRITÀ SULLO SCETTICISMO

Abbiamo più che mai bisogno di inondare di IMPEGNO la nostra società. Stanno per giungere tempi difficili.

Grazie a tutti e a tutte per le vostre dimostrazioni di affetto e di sostegno. Sono davvero gradite, non pensiate che se le porti via il vento. Arrivano al cuore.

Domani, se sarò dell’umore adatto, parlerò della solidarietà, quest’altro indispensabile mattone per costruire una società degna di questo nome.

1° Aprile

Salve amici e amiche. Posso dire che martedì 31 marzo è stato un giorno molto speciale. Ho preso coscienza che è svanito per sempre ciò di cui finora si era orgogliosamente vantato quello che diceva “mai, mai sono stato ricoverato in ospedale”, malgrado non fosse stato un esempio di vita salutare. C’è sempre una prima volta.

Ma confesso che non è poi così terribile. Mi sento protetto, assistito e controllato. Alle 6 mi hanno fatto un elettrocardiogramma, alle 9 e alle 17 mi hanno fatto un prelievo di sangue, e mi hanno misurato i parametri vitali due volte nell’arco della giornata. Alle 11 mi hanno fatto altre radiografie ai polmoni. Alle 11:30 il medico mi ha visitato e si è rallegrato con me perché non ho febbre. Ho fatto colazione, pranzato e cenato molto bene. Due tubicini di plastica nel naso mi tengono compagnia giorno e notte, perché mi aiuta a respirare meglio. Tutto, per ora, sotto controllo. Trattamento eccellente e impagabile.

E la domanda: tutto questo festival di cure, di mezzi, di risorse perché?

E la risposta è chiara: perché vivo in una democrazia sociale e di diritto.

Perché vivo in un paese dove la maggioranza delle cittadine e dei cittadini crede ancora che valga la pena difendere i servizi pubblici. Perché siamo di più noi che sappiamo che è necessario pagare le tasse. Di più noi che non diciamo nel mese di giugno, agosto o settembre “a partire da oggi e fino alla fine dell’anno sto lavorando per questo cazzo di Stato che si porta via il frutto del mio lavoro”.

Si stanno prendendo cura di me perché c’è SOLIDARIETÀ

Una bella parola che è stata definita e usata in mille modi. García Márquez la definì la “tenerezza dei popoli”, mi piace questa definizione.

SOLIDARIETÀ è l’albero della frutta condivisa.

SOLIDARIETÀ è pensare che gli altri possono essere un arricchimento di sé stessi.

SOLIDARIETÀ è pensare agli altri come un’estensione di sé stessi.

SOLIDARIETÀ è la base di molti valori umani come: lealtà, cameratismo, empatia, amicizia, amore, rispetto.

Ma alla SOLIDARIETÀ individuale o collettiva non si può adempiere senza uno Stato solidale. È un sentimento che ha bisogno di politica.

Il mondo contemporaneo ha bisogno di SOLIDARIETÀ tra popolazioni e stati. E in questi giorni vedremo la risposta dell’Europa. Verificheremo l’autenticità dei valori dei suoi cittadini e governanti. Vedremo se alla fine finiranno per prevalere i nazionalismi con i loro particolarismi ed egoismi.  Vedremo se: saranno crudeli ed egoisti e indifferenti alla sofferenza dei loro concittadini. O risponderanno con SOLIDARIETÀ aprendo un nuovo ciclo di speranza per costruire la nuova Europa.

E qui finisco. Aggiungendo un concetto che ho utilizzato ripetutamente per decenni, nel mio lavoro sindacale, quando si trattava di definire cosa fosse un sindacato, quando questo sia onesto, coraggioso e intelligente. È l’”ORGANIZZAZIONE DELLA SOLIDARIETÀ” o la “SOLIDARIETÀ ORGANIZZATA”.

Grazie per i vostri messaggi, le vostre manifestazioni di sostegno e affetto che non mi lasciano da solo perché mi tengono compagnia e riempiono questa stanza di amicizia.

Baci e abbracci a tutte e tutti. Vi voglio bene.

2 aprile

Salve amici e amiche, questo primo di aprile è stato un giorno di pioggia e cielo grigio. Ma è stato un giorno allegro dentro queste quattro mura di una stanza di ospedale.

L’allegria che sprigiona Paula, di 32 anni, infermiera che in casa ha due piccole pesti, una di cinque e l’altra di tre anni che ogni giorno la ricaricano di energia.

L’allegria di Montse, di 53 anni, con un figlio e due nipoti e degli occhi fatti apposta per questo lavoro, perché trasmettono tranquillità. E Rosa, di 61 anni, con un figlio di 35, emana così tanto amore per il suo lavoro da essere contagiosa e da farmi pentire di non aver studiato medicina.

E l’allegria per le buone notizie che, alle 11:30 di mattina, mi ha dato Rubén, il medico, di 43 anni. Con la sua voce ferma, che trasmette sicurezza, mi ha detto: “le cose vano bene”, e quindi “ora vediamo come reagisci senza l’ossigeno”. E così mi hanno tolto i tubicini di plastica che avevo nel naso. Vedremo il risultato, sicuramente positivo.

La stanza si riempie di allegria quando entra Gracia, di 45 anni, con tre figli, sivigliana. Ci siamo lamentati insieme di non poterci godere, quest’anno, la Feria de Abril di Siviglia, ma ci siamo dati appuntamento per la prossima Feria per brindare con un bicchiere di rebujito [bevanda andalusa N.d.T.] al suono delle sevillanas. Non esiste al mondo festa più grande della Feria di Siviglia.  Ci sono stato una decina di volte e sempre col mio amico Salvador López, che non c’è più, e in questa stanza ho pensato molto a lui e a Rafael Martínez Parra, da quando se ne sono andati manca qualcosa di vitale nella mia vita.

Ma ho SPERANZA che tutto andrà bene. SPERANZA come quello stato d’animo che ti fa sentire raggiungibile ciò che desideri.

La SPERANZA è una abitudine che deve necessariamente entrare a far parte delle nostre vite. È una condizione imprescindibile per essere felice.

Vivere senza SPERANZA sarebbe vivere nella sofferenza perpetua, nella paura costante, nella tristezza permanente. Perdere la SPERANZA significherebbe rinunciare a fare ciò che si deve per superare i problemi.

Qualcuno ha detto che “sia che tu creda di potercela fare, sia che tu creda di no, hai ragione in entrambi i casi”. È vero, perché dipende anche da te come affrontare il desiderio e l’obiettivo.

La SPERANZA implica fiducia in qualcosa e qualcuno. Non ha nulla a che vedere con l’illusione perché questa è solo anelito senza azione, né impegno.

Si dice che la speranza sia l’ultima a morire e non sempre è vero. Troppe volte come persone, gruppi o organizzazioni perdiamo la SPERANZA prima di essere giunti fino alla fine dell’impegno e dello sforzo necessario che l’obiettivo esige.

Grazie alla SPERANZA costruiamo un pensiero positivo. Per esempio, di fronte a una malattia, in cui lo stato d’animo diviene una parte molto importante della terapia.

Dicono i medici che i pazienti con SPERANZA hanno livelli maggiori di dopamina, endorfine e altre sostanze neurochimiche che favoriscono il benessere e l’energia per vivere. È certo.

La SPERANZA è la nostra fonte di energia, è un combustibile necessario per la vita e il giorno per giorno. Aristotele ci ha lasciato detto: “la SPERANZA è il sogno dell’uomo sveglio”. Spero che, dopo tanti secoli, Aristotele ci permetta di plagiare un po’ la sua frase per dire anche che: “la SPERANZA è il sogno delle società sveglie”. Le società che vogliono evitare di cadere nel pessimismo e nell’inazione. Che vogliono impedire che trionfino i discorsi distruttivi degli opportunisti politici, degli egoisti e dei profeti di sventura che iniziamo a vedere in molti settori politici, economici e mezzi di comunicazione del nostro paese.

La SPERANZA collettiva tanto necessaria proprio in questi giorni per evitare di finire come la possente aquila di questa antica favola:

“C’era una volta in un lontano paese… Alcuni malvagi legarono una possente aquila a un pino di una montagna con una corda grossa e molto ben intrecciata. L’aquila sbatté più volte le ali, beccò la corda, si allungò mille e più volte, finché stanca, dopo un certo tempo, si arrese e rimase rattrappita. Eppure, l’azione combinata dei suoi sforzi e del passare del tempo, e della brina, che si era infilata nella treccia della corda, l’avevano sfilacciata.

Sarebbe stata sufficiente qualche strattonata in più perché la corda si rompesse e il grande uccello recuperasse la propria libertà. Ma l’aquila si era arresa. Aveva perso la SPERANZA. Aveva rinunciato. Rimaneva vinta e sottomessa per sempre, ora, non più prigioniera della corda, né degli uomini malvagi, bensì del suo sconforto e della rinuncia a lottare”.

Non lasciamoci abbattere, rinnoviamo la fiducia in noi stessi e nel nostro futuro come società. Noi che abbiamo SPERANZA siamo di più e abbiamo più forza. Siamo molti di più quelli che, come canta il grande Sabina [Joaquín Sabina, noto cantautore spagnolo – N.d.T.], vogliamo che vinca il voglio, la guerra del posso.

Uniamo le nostre forze e mettiamo assieme SPERANZE, vengono tempi difficili lo sappiamo, la somma degli sforzi e delle SPERANZE sarà l’unica strada.

Grazie di nuovo per tutti i messaggi di affetto che sono la migliore compagnia e che custodirò per tutta la vita. Vi voglio bene.

3 aprile

Ciao, è già giovedì, il tempo vola, anche in un ospedale. I giorni iniziano ad essere un po’ monotoni. Sebbene una sfida da raccogliere ci sia sempre. Io sono riuscito a superarne una. Quella che non si sbriciolino i Biscotti Recondo che mi danno ogni mattina a colazione. Vi confesso che è stata un’idea fissa di questi giorni che ha finito per ossessionarmi. Fino ad oggi non ci ero riuscito, ogni volta lo stesso, al solo tocco del coltello di plastica per spalmare il burro, il biscotto crack! crack! Rotto in almeno cinque pezzi. Oggi mi sono svegliato pensando a come sarei potuto riuscire a mangiarmi i due biscotti interi e ben spalmati di burro e marmellata di lamponi. Ci sono riuscito, non è stato facile, li ho cinti col laccio emostatico che usano per fare l’iniezione ed estrarre il sangue. E sono rimasti entrambi integri. Sono molto contento.

È stato una buona giornata. Sono già molte ore che non ho l’ausilio dell’ossigeno per la respirazione, e la misurazione dei livelli di ossigeno nel sangue che mi hanno fatto ogni sei ore ha dato un buon risultato. Mi hanno prelevato sangue per altre analisi. A metà pomeriggio mi hanno fatto un elettrocardiogramma. Non ho avuto febbre per tutto il giorno. E sono stato visitato dalla Dr.ssa Anna, che oggi sembrava, per il colore del camice e la plastica in testa, una giovane beduina del deserto. Mi ha dato notizie molto buone. Mi ha detto testualmente: “va molto bene, poco per volta, ma va molto bene”.

Mi ha fatto pensare a quanto sia importante una buona parola. E a quanto fanno bene gli incoraggiamenti che ricevo nei messaggi durante tutto il giorno e che leggo su Facebook. Sono un’asta che aiuta a saltare. Dico questo perché oggi voglio parlare dell’allegria e del valore, così importante, che hanno le buone parole e le dimostrazioni di sostegno e di fiducia verso qualcuno.

Ho scelto l’ALLEGRIA perché è un’emozione contagiosa, capace di provocare un’attivazione anche negli altri. L’ALLEGRIA fa sì che ci sentiamo più inclini a collaborare e a dare aiuto agli altri quando ne hanno bisogno, favorendo i nostri rapporti interpersonali.

Chi mi ha conosciuto durante la mia militanza sindacale sa che ero solito ricorrere, con frequenza, alle metafore e alle favole per spiegare concetti e idee che detti in altro modo avrebbero avuto bisogno di molte più parole. Credo che sia proprio questa pratica, molto comune tra gli oratori anglosassoni, a far sì che i loro discorsi siano infinitamente più brevi, concisi e comprensibili dei nostri, quelli dei latini, che sono quasi sempre lunghi, ripetitivi e variopinti.

E ritorna in mente una graziosa storia, sulla forza di mobilitazione del sostegno e dell’ALLEGRIA:

“C’era una volta un gruppo di rane che camminavano in un bosco, quando due di esse caddero in un pozzo molto profondo. Le altre rane preoccupate, si riunirono intorno e videro che era impossibile salvarle. Il pozzo era troppo profondo. Le due rane, spinte dall’istinto di sopravvivenza, iniziarono a saltare, cercando di uscire dalla voragine, ma il resto delle rane da sopra gridava loro:

-Non insistete! Non potrete uscire mai! Lasciate perdere! Il pozzo è molto profondo.”

Le due continuarono a saltare, anche se una di loro iniziò a perdersi d’animo sempre più…

-Non saltate più, è inutile! Gridavano loro sempre più forte le loro compagne.

Le rane gridavano e facevano gesti con le braccia affinché capissero quello che gli stavano dicendo.

Alla fine, una delle due cedette e cadde sul fondo, dove infine morì.

L’altra rana continuava comunque a saltare sempre di più, con più forza, con più intensità…Quanto più le sue compagne gridavano, tanta più forza e slancio prendeva per saltare.Finché in un attimo fece un gran salto e riuscì a raggiungere il bordo del pozzo e a uscire.

Le altre rane la guardarono a bocca aperta senza saper che dire. Erano davvero stupite che fosse uscita dalla voragine, nonostante tutte le loro grida per farla desistere.

  • Come hai fatto a uscire? – le domandarono – Non sentivi che ti dicevamo di smettere?

-No, sono sorda e non sentivo bene quello che mi gridavate. Ho sempre interpretato il vostro agitare le braccia e le grida come sostegno e incoraggiamento a che ce l’avrei fatta. Perciò vi ringrazio perché senza di voi sarei morta in fondo al pozzo.

L’allegria come sensazione individuale di appagamento ed entusiasmo. Ma anche, come valore di una società, poiché aiuta a produrre risultati migliori nei progetti collettivi. L’ALLEGRIA facilita l’assunzione di sfide e responsabilità da parte dei gruppi. L’ALLEGRIA incoraggia la cooperazione, la solidarietà, l’autostima. Comportamenti di cui avremo bisogno a tonnellate in questi giorni e nel futuro che ci attende. Abbiamo bisogno di stimolare l’ALLEGRIA per contrastare e allontanare i sentimenti di rabbia, frustrazione, intolleranza e aggressività che tanto possono nuocere.

Magari l’Europa coltivasse l’ALLEGRIA e sapesse far sparire i sentimenti di odio, minaccia o eccitamento. Magari l’Europa imparasse a sorridere per individuare politiche di solidarietà, di cooperazione e di giustizia sociale.

Grazie ancora per le vostre dimostrazioni di affetto e sostegno che mi fanno compagnia nella solitudine di questa stanza di ospedale.

Domani, se posso e se ho l’umore giusto, parlerò dell’EMPATIA.

4 aprile

Salve amiche e amici, e giunse il venerdì 3 aprile che ci ha regalato un cielo radioso, così lo vedo dalla mia finestra. Inizia già a venir voglia di una birra fresca al tavolino di un bar. Bene, verrà il momento, per ora accontentiamoci del litro e mezzo di acqua minerale in bicchiere di plastica. Ah! Prima che mi dimentichi, un consiglio per chiunque dovesse un giorno essere ricoverato in ospedale. Portati da casa un set di posate decenti, quelle che ti danno, di plastica, si rompono subito. Ti ritrovi col cucchiaio senza manico e la forchetta senza le quattro punte. Sei avvisato. Oggi è stato un gran giorno. Mi hanno prelevato il sangue da un’arteria, cavolo se fa male!, mi hanno fatto di nuovo una radiografia ai polmoni. L’omaccione che portava l’immensa macchina dei Raggi X nella stanza, mi ha detto che è il mio “esame di maturità”, perché se va bene può far diventare questa una giornata speciale. Ho voluto capire quanto di meglio c’era nelle sue parole. I risultati della radiografia e delle analisi ce li avranno nelle prime ore del pomeriggio, quando mi visiterà Anna, la dottoressa, e ascolterò la sua sentenza.

Osservo ammirato come lavora il personale sanitario che mi sta assistendo. Penso che l’EMPATIA sia la capacità di capire come si senta un’altra persona. Perché io, in ogni momento mi sono sentito importante per loro. Ho potuto sentire, dopo una chiacchierata di dieci minuti con Albert, un giovane medico praticante, l’orgoglio per il suo lavoro e la coscienza che ha dell’importanza di questo momento. Mi ha fatto ricordare una frase che lessi molti anni fa nella sezione La Contra del giornale La Vanguardia, la migliore pagina, a parer mio, della stampa spagnola da decenni. In essa un famoso medico affermava che la sua missione era: “curare di quando in quando, alleviare frequentemente e consolare sempre”. Così mi sono sentito in ogni momento in questa stanza, per il lavoro di tutte le persone che mi hanno assistito. Gli stessi che sento ridere, soddisfatti del loro lavoro, ogni mattina quando si danno il cambio alle 7:30, dato che fanno turni di 12 ore.

Sono un esempio di EMPATIA, quel comportamento che impedisce di vedere gli altri come sagome, come strumenti per i propri fini e ostacoli da rimuovere. Perciò, ora in questa crisi sanitaria che stiamo vivendo e che colpisce duramente l’insieme della società, l’EMPATIA è, anche, una virtù politica e deve essere una caratteristica essenziale e da pretendere nei dirigenti politici, sociali ed economici. È il momento, nel mezzo del dolore e della paura per ciò che succederà alla vita e al lavoro di tanta e tanta gente, di mettere in campo l’EMPATIA.

L’EMPATIA necessaria per stringere i legami collettivi e di identità condivisa, che nulla hanno a che vedere coi sentimenti egoisti dei nazionalismi. Questo virus ci ha mandato il chiaro messaggio che l’unico modo che abbiamo di uscirne è stringerci l’uno con l’altro, favorendo il sentimento di aiuto al prossimo, del sentire che dalle tue azioni dipende la sorte di chi ti circonda, e che tu dipendi da loro. Juan Ramón Jiménez, l’autore di “Platero y Yo“, spiegò con particolare efficacia cos’è l’EMPATIA quando disse che lui, quando dovette ridipingere la facciata di casa sua, andò a chiedere al vicino della casa di fronte quale fosse il colore che più gli piaceva.

Bene, amici e amiche, sono le cinque di pomeriggio e mi stanno comunicando che mi dimettono. Che posso andare a casa, con una busta con i farmaci che devo prendere ogni giorno. Bene! Bene! Sono felice. Mi portano nel corridoio sul lettino per abbandonare il reparto di isolamento. Tutti i sanitari del reparto mi salutano acclamando il mio nome con – viva! bravo! – accompagnati da salti di gioia e applausi appassionati. Ricambio gli applausi, con gli occhi pieni di lacrime di emozione e gratitudine. Vedo nei loro sguardi che i loro applausi per me nel dimettermi sono il miglior riconoscimento al loro impegno, la prova evidente che ciò che fanno ha senso e risultati chiari. Applausi, applausi, applausi che sono la massima espressione di EMPATIA col malato. Per questo solo momento, vi confesso, è quasi valsa la pena passare questi giorni in questa stanza.

E qui, emozionato e grato chiudo la finestra dell’ospedale. Grazie per avermi letto, Grazie per i vostri messaggi e per l’amicizia.

Vi voglio bene.

Joaquim (Quim) González Muntadas