Lombardia e Veneto hanno chiesto la “devoluzione” su 23 materie; l’Emilia Romagna su 15. Altre Regioni si apprestano a fare altrettanto. E il governo vorrebbe varare una legge sul federalismo differenziato.
Nel pentolone del governo dove si cucinano le leggi del popolo ne bolle una che spezza in due l’Italia: da una parte quella più sviluppata, dall’altra quella più arretrata. Senza più ombrelli di protezione per redistribuire la ricchezza tra zone ricche e zone povere per cercare di essere un po’ più uguali. Stiamo parlando della legge sul federalismo differenziato. È una possibilità prevista dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione secondo cui le Regioni possono chiedere «ulteriori forme e condizioni di autonomia» rispetto a quelle loro assegnate. C’è stato un referendum in Lombardia e Veneto che, solo con una maggioranza risicata in Veneto, ha detto sì a una maggiore autonomia. Ma ora per diventare operativa questa autonomia differenziata ha bisogno di una legge che il governo si è impegnato a fare.
Un libro fa chiarezza sulla questione. I rischi di un federalismo senza paese, primo volume della collana Riace voluta dall’Alta scuola Spi Luciano Lama, fa il punto della situazione e spiega in che modo l’attribuzione di maggiore autonomia legislativa alle Regioni a statuto ordinario rischia di determinare, appunto, un federalismo senza paese. Nel 2001 la riforma costituzionale aveva concesso alle Regioni la possibilità di richiedere competenze aggiuntive ma aveva mantenuto saldi due principi: la solidarietà e l’unità del Paese. I referendum di Lombardia e Veneto, invece, hanno impresso un’accelerazione all’iter previsto dall’articolo 116 della Costituzione. Veneto e Lombardia, infatti, reclamano competenza legislativa su ben ventitre materie. E anche l’Emilia Romagna ha dato il via alla procedura per l’assegnazione di autonomie straordinarie.Che conseguenze avrà questa maggiore autonomia delle Regioni più ricche? Porterà più diseguaglianze di quante già non esistano. L’attribuzione di maggiore autonomia e maggiori risorse ad alcuni territori, lasciandone indietro altri, può rompere il vincolo di solidarietà statuale e cancellare il principio perequativo. Sanità, prestazioni sociali, istruzione e formazione, lavoro e tutela dell’ambiente devono essere garantiti in tutte le Regioni, attraverso una legislazione nazionale e con un’adeguata copertura finanziaria.
Il criterio della spesa storica, per determinare le attribuzioni di risorse alle singole Regioni, non è sufficiente a garantire uniformità dei diritti. Lo dimostra lo stato esistente dei servizi pubblici. In Italia le gravi diseguaglianze nella fruizione di servizi pubblici essenziali dimostrano che la garanzia dei diritti fondamentali è completamente assente o è condizionata dal territorio di residenza, con picchi di vera drammaticità nelle Regioni meridionali.
Deve essere chiaro che non si può concedere maggiore autonomia ad alcune Regioni senza prima aver adottato una legislazione nazionale che definisca leggi quadro sui princìpi fondamentali che garantiscano, in tutti gli ambiti, i livelli essenziali delle prestazioni e i relativi fabbisogni standard connessi all’esigibilità della prestazione definita come essenziale.
Il governo egemonizzato dalla Lega Nord vuole un’inaccettabile disarticolazione territoriale dell’esigibilità dei diritti sociali con la creazione di venti sistemi differenti, non solo sanitari, realizzando, senza dirlo, la devoluzione già bocciata dai cittadini con un referendum.