Matteo Zuppi. Ritratto di un uomo di chiesa dalla parte degli ultimi

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«Senza pace non c’è futuro. Mai abituarsi agli orrori della guerra». Con questo messaggio il cardinale di Bologna, Matteo Zuppi, conclude un’ora di conversazione con LiberEtà. Quando ci accoglie nel suo studio, ha appena congedato un giovane sacerdote congolese: viene dal luogo nel quale sono stati trucidati l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci, l’autista Mustapha Milambo. Il cardinale conosceva il giovane e generoso diplomatico.

Matteo Zuppi, 65 anni, è arcivescovo metropolita di Bologna dal 2012. Appena nominato cardinale da papa Francesco, il 5 ottobre del 2019, disse: «La mia vita non cambia, continuerò ad andare in bicicletta». Segno dell’amore per una Chiesa dei poveri, degli ultimi. Il porporato abita nella Casa del clero, una specie di ospizio per sacerdoti anziani. Romano, figlio di una famiglia borghese, scelse presto di volgere lo sguardo dall’altra parte. Cruciale nella sua formazione, l’incontro all’inizio degli anni Settanta con la comunità di Sant’Egidio, a Trastevere. Imparò due cose: «Pregare, portando il vangelo nella borsa di tolfa, come usava in quegli anni, e camminare tra i poveri». La sua è una chiesa “schierata”, «ma non di parte». «Un giorno – racconta – presi lo stesso autobus con il quale andavo a scuola per andare nel verso opposto, in periferia. Lì ho compreso il Vangelo». È un ambasciatore per la pace: fu tra i mediatori che lavorò negli anni Novanta per porre fine al conflitto in Mozambico, devastato da quindici anni di guerra civile. Ma è noto anche le posizioni scomode e poco allineate, che gli hanno attirato qualche critica, come la difesa del 25 aprile: «Non scherziamo. Il 25 aprile è la festa di tutti, un momento fondativo dei valori della nostra repubblica. Qualcuno mi ha attaccato per questa mia posizione, ma non ho cambiato idea».  

Perché è così convinto che il 25 aprile sia una data unificante e non divisiva, come qualcuno sostiene? 

«Senza il 25 aprile, non avremmo avuto l’Assemblea costituente e poi la Costituzione. Le stesse forze che avevano animato la Liberazione gettarono le fondamenta del nostro Paese. Chi pensa che quella data simbolica sia divisiva giustifica questa idea con le violenze che ci furono dopo. Vero, ci furono violenze, occorre condannare le brutalità – precedenti e successive al 25 aprile – con chiarezza e senza ambiguità, ma queste non intaccano i valori che hanno portato alla liberazione del nostro paese. Anzi, proprio perché difendo il 25 aprile, condanno la violenza. Come condanno, allo stesso modo, la violenza che aveva provocato le vendette. Una violenza spesso coperta dal pretesto ideologico, e quindi ancora più amara per le vittime. Ciò che è mancato in questi anni, è un confronto anche doloroso ma franco che portasse a una vera riconciliazione, come invece è in parte accaduto per il terrorismo». 

Eminenza, che cosa l’ha spinta, a gennaio, a scrivere un’ideale lettera alla Costituzione, pubblicata dal quotidiano Avvenire, onorando lo sforzo e il sacrificio dei padri e delle madri costituenti?  

«La lettera è stata scritta prima che fosse raggiunto l’accordo per il governo Draghi. La nostra Carta costituzionale rappresenta il momento più alto di incontro tra le principali tradizioni politiche. Allora, dopo le immani distruzioni della guerra, i cristiani assieme alle forze socialiste e comuniste e alla tradizione laica trovarono la forza per arrivare a una sintesi, pur nelle differenze. E parliamo di distanze ideologiche, ben più profonde di quelle che agitano la politica oggi, spesso piegata da ragioni di mero opportunismo. Con quella lettera ho voluto dire che questa fase storica richiede la capacità – e spero che questo governo sia all’altezza della sfida – di mettere da parte gli interessi personali e di parte, esattamente come facemmo con la Costituente. E lo si può fare soltanto se è matura la convinzione e si avverte la necessità di trovare un denominatore comune tra forze eterogenee per difendere un bene superiore e per porre fondamenta solide per tutta la casa comune. Se riusciremo in questo, forse riusciremo anche a trovare la strada di una dialettica politica costruttiva e la strada per quello che papa Francesco chiama “amore politico”». 

Nella lettera definisce la Costituzione un “testo vivente”. Dunque, la Carta è in grado di parlare al presente? 

«Lo spirito della nostra Costituzione resiste, ma va recuperato nella sua interezza. Negli ultimi anni, l’abbiamo piegata un po’ troppo verso i diritti individuali, mentre la forza della Carta sta anche nella grande visione del “vivere insieme”, e cosa significa questo vivere insieme nel mondo.  Questo senso si è smarrito. Abbiamo privatizzato la casa comune. Non vorrei essere frainteso: i diritti individuali sono indispensabili ma, se non sono mitigati da un’idea di comunità, possono rivelarsi pericolosi e portare all’individualismo. I diritti individuali presumono sempre doveri e responsabilità collettive. L’ “io” è sempre un “noi”».  

Viviamo oggi, a causa della pandemia, una stagione difficile. Quali sono i rischi, ma anche le opportunità di questa situazione? 

«Tra i rischi c’è sicuramente il fatto che chi è precario, lo sarà ancora di più. Se non ripariamo l’ascensore sociale, rischiamo di avere disuguaglianze ancora più grandi di quelle che abbiamo imparato a conoscere prima della pandemia. Senza sicurezza sociale e senza la possibilità per i nostri giovani di costruirsi un futuro, togliamo la speranza. E senza speranza, è impossibile ricostruire. Ma siamo anche un grande paese, che per la sua storia, per il suo umanesimo può rappresentare molto nel mondo, se riusciremo a cogliere le opportunità che arrivano dall’Europa, ma anche se sapremo aprirci al principio dell’accoglienza». 

Vede il rischio che, sotto il velo dell’emergenza, le nuove disuguaglianze potrebbero dare fiato ai “seminatori di odio”?  

«L’odio è sempre presente e ci accompagnerà ancora, a maggior ragione dobbiamo essere vigili e presenti ora. Ma avrà meno spazio se manteniamo alta l’attenzione verso l’altro, come prassi attiva e non come un accessorio ridotto a sentimentalismo. I sovranismi possono apparire una soluzione efficace per correggere le distorsioni della globalizzazione e proteggere la propria identità. In realtà sono una semplificazione ingenua e pericolosa». 

“La Chiesa vive la città degli uomini” e ancora “la Chiesa si deve fare carico di tutti i sentimenti umani”. Sono frasi che lei usa spesso. Di che segno è questo impegno?

«La Chiesa deve nutrirsi di carità, di vicinanza alle sofferenze. È un sentimento che possiamo sintetizzare in un’espressione usata da Francesco: “Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo, dopo una battaglia… in cui si curano le ferite”. Un concetto ribadito nell’enciclica “Fratelli tutti”, che racchiude una spinta evangelica e una prospettiva dello stare insieme fra diversi, anche tra religioni e convinzioni diverse, alla ricerca di una grammatica che ci unisca. A maggior ragione, ora, di fronte a una sfida enorme come la pandemia. Ma essere vicini alle sofferenze, non è solo la pietas o la compassione, ma vuol dire combattere le cause dell’ingiustizia e delle disuguaglianze. Poi c’è un aspetto spirituale: la Chiesa vive nella città degli uomini, per rispondere alla domanda di Dio che è in ognuno di noi. La Chiesa non ha saputo sempre capire questa domanda, che si manifesta in un cercare continuamente l’eternità, il senso delle cose, la bellezza, il futuro, che anima le nostre vite». 

La Chiesa può essere neutrale? 

«La Chiesa non è mai neutrale, ma è sempre dalla parte dei poveri, per motivi evangelici. Papa Giovanni XXIII usò l’espressione “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”: la Chiesa è di tutti ma in modo particolare dei poveri. Un messaggio evangelico ripreso da Papa Francesco, e che ha attraversato tutta la Chiesa. Penso ad esempio a Paolo VI, che passò il Natale in una borgata di Roma e vendette la tiara per costruire un lebbrosario in Africa». 

Oggi la Chiesa sembra attraversata da tensioni non sempre chiare all’esterno, e lo stesso papa non è amato da alcuni settori della Chiesa. 

«Non c’è dubbio che ci siano cattolici che interpretano in modo ideologico la fede, mettendo addirittura in discussione il papa come garante della dottrina, seminando divisione che è sempre frutto del maligno. Ma sono dell’opinione che i fili di comunione non vadano interrotti, anche di fronte a letture pregiudiziali e ideologiche, mantenendo però la chiarezza e l’obbedienza a chi presiede nella carità ed è il garante della tradizione».