8 marzo 1972, a Roma si alza il vento femminista

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Migliaia di donne sfilano per le strade della capitale fino a raggiungere Campo de’ Fiori. È la prima volta che accade in Italia. Gli slogan scanditi sono di grande impatto. Ma a un certo punto arriva, ingiustificata, la carica violenta della polizia schierata in forze, che colpisce le manifestanti con calci, pugni e manganellate. Un commissario si rivolge loro dicendo: «Non vi vergognate?». E nel paese molti la pensano come lui.

Un luogo simbolo. Mormorii e commenti per niente benevoli si sprecano tra coloro che, un po’ stupiti e un po’ scandalizzati, assistono al passaggio delle donne. Qualcuno non si trattiene e inveisce ad alta voce: «A casa! Le donne devono stare a casa!»; «Tornate sul marciapiede!». Grida e insulti sono rivolti alle manifestanti, molte sono ragazze, che in gruppo o in ordine sparso si apprestano a raggiungere Campo de’ Fiori. Il luogo del raduno non è stato scelto a caso: è l’unica piazza della Roma storica senza una chiesa e dove si erge il monumento a Giordano Bruno, arso vivo lì per volere della Santa Inquisizione. Sono in tante, forse migliaia, a dar vita l’8 marzo 1972 a quella che viene considerata la prima manifestazione femminista italiana. Gli slogan scanditi e scritti sui cartelli sono di grande impatto e rivelano un’altra metà del cielo sconosciuta alla gran parte degli italiani: «Partoriamo idee, non solo figli»; «Il matrimonio non è una carriera»; «Il matrimonio è prostituzione legalizzata»; «Legalizzazione dell’aborto»; «Liberazione omosessuale».
È venuta anche Jane Fonda, l’attrice statunitense paladina dei diritti civili e di genere, oggetto nel suo paese di aspre polemiche per l’impegno contro la guerra nel Vietnam. Fotografi e telecamere le si affollano intorno quando fa un breve intervento di adesione. Il megafono passa poi ad Alma Sabatini, leader storica del femminismo italiano e promotrice nel 1970 del Movimento di liberazione della donna, che invita le compagne a dare vita a una “cortea”. Non appena le manifestanti iniziano a girare intorno alla statua di Giordano Bruno vengono circondate dalla polizia, mandata in forze a presidiare la piazza.

La carica della polizia. Le cose, prendono subito una brutta piega: «Quando il collettivo Cerchio spezzato dell’università di Trento si schiera di fronte ai poliziotti – ricorda la giornalista Adele Cambria – una bambina, Susanna, figlia di Giovanna Pala, del collettivo Pompeo Magno, alza il braccio con il pugno e strilla con la sua vocetta: “Via via la polizia”. A questo punto il commissario (in borghese) cinge la fascia tricolore, avverte che il corteo non autorizzato deve sciogliersi (si era sciolto, stavamo sedute per terra!) e dà l’ordine di caricare». Gli agenti si avventano sulle manifestanti, colpite con manganellate, spinte e pugni. Molte vengono ferite, alcune finiscono all’ospedale, tra loro la cinquantenne Alma Sabatini e la cosa suscita un certo scalpore. La folla viene infine dispersa e la piazza sgomberata. È la prima volta in epoca repubblicana che la polizia reprime con tanta violenza una manifestazione di donne. Una carica ingiustificata, attribuita a un attacco di nervi per gli slogan delle femministe, ritenuti inaccettabili e provocatori. In un filmato d’epoca si vede e si sente distintamente un commissario rivolgersi alle partecipanti con un: «Non vi vergognate?», espressione di una gretta mentalità questurina, ma non solo. Nell’Italia di allora sono in molti a pensarla così.

Un paese retrogrado e rancoroso. Il paese sta vivendo una fase di transizione. L’onda lunga del ’68 non si è esaurita e l’apparire sulla scena del movimento femminista ne costituisce uno degli effetti più dirompenti. Ma c’è chi cerca testardamente di opporsi al cambiamento, in politica, nella società e nel costume. Chi non ha ancora digerito l’approvazione del divorzio, una legge fondamentale per la liberazione di molte donne, e coltiva propositi di rivalsa. Certi umori si possono captare nei crocchi di benpensanti che a Roma si ritrovano alla galleria Colonna, davanti alla bacheca del quotidiano ultraconservatore Il Tempo: a espressioni di rassegnato sconforto («di questo passo dove andremo a finire») si accompagnano insane pulsioni autoritarie («ci vorrebbero i colonnelli anche da noi, come in Grecia!»). Sarà l’esito del referendum antidivorzista nel 1974 a porre fine alle velleità di quell’Italia retrograda e rancorosa.

La nuova coscienza. Ma il protagonismo femminile pone problemi anche al campo progressista, che deve fare i conti con una nuova coscienza delle donne. Battersi per un’emancipazione basata essenzialmente sull’autonomia economica e la partecipazione politica non basta più. Il vento femminista entra nelle case e investe la sfera privata di tanti uomini di sinistra, costretti a confrontarsi con mogli, compagne, sorelle, madri, convinte che «nella famiglia, l’uomo è il borghese e la donna il proletario».

Una stagione di lotte. La manifestazione dell’8 marzo 1972 mette le ali al femminismo italiano, che l’anno dopo si mobilita a sostegno di Gigliola Pierobon, una militante padovana processata per aborto. Moltissime esponenti del movimento, con in testa Sabatini, cominciano ad autodenunciarsi aprendo una stagione di lotte approdata nel 1978 all’approvazione della legge 194. La memoria di quegli anni e delle battaglie successive dà la misura del cammino percorso e ci induce ad apprezzare le conquiste ottenute. Lo sguardo al presente ci richiama a quanto resta ancora da fare sul piano dei diritti, dei comportamenti e dell’effettiva parità di genere.

(Articolo di Giuseppe Sircana, tratto dal numero di LiberEtà di marzo)