domenica 28 Aprile 2024
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«Partigiano a 16 anni per liberare Napoli dai nazifascisti»

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«Partigiano a 16 anni per liberare Napoli dai nazifascisti»

Il 25 aprile 1945, l’Italia intera celebrava la liberazione dall’occupazione nazifascista. Quasi due anni prima, però, fu Napoli la prima grande città in Europa a ostringere i tedeschi ad alzare bandiera bianca. Quei giorni, li racconta a LiberEtà, Antonio Amoretti, uno dei protagonisti delle Quattro giornate. A 93 anni, continua da testimone a raccontare ai ragazzi nelle scuole cosa è stata la Resistenza e perché un popolo intero insorse per riconquistare la libertà.

 

Quando imbracciò il fucile e cominciò a sparare contro tedeschi e fascisti, Antonio Amoretti, classe 1927, aveva compiuto 16 anni da pochi giorni. Oggi ne ha novantatré, è presidente del Comitato Provinciale di Napoli dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e il suo “lavoro”, così lo definisce, è raccontare ai ragazzi, dalle elementari all’università, cosa è stata la Resistenza, Le Quattro giornate di Napoli e perché un giovane studente come lui, rimasto senza scuola perché bombardata, scelse di diventare un partigiano.

«Con la proliferazione della destra xenofoba – dice – non possiamo aspettare che i nostri giovani si scontrino nelle piazze con gruppi violenti di neo nazifascisti. L’unica arma che abbiamo è la diffusione della cultura, della conoscenza, e la difesa della nostra Costituzione scritta col sangue di tantissimi giovani e meno giovani che hanno partecipato alla Resistenza all’interno del movimento antifascista».

La mattina del 28 settembre 1943, nel rione Sanità avevano eretto la barricata fin dalle prime ore del giorno. Tonino ‘o biondo, così chiamavano quel ragazzino capace di correre tutto il giorno senza sosta per le strade della città, era andato all’Arenaccia per prendere un carico di moschetti. Al ritorno si trovò davanti l’inferno. I carri armati Wehrmacht avanzavano nelle strade e le raffiche di mitra arrivavano da ogni parte. Cercò un riparo e da lì cominciò a sparare sino a quando, tre giorni dopo, il primo ottobre 1943, i tedeschi alzarono bandiera bianca dinanzi alla sollevazione di un intero popolo. Napoli diventava così la prima grande città europea a liberarsi dall’occupazione nazista. Due anni dopo, il 25 aprile 1945, fu la volta dell’Italia intera.

«Molti storici o pseudo tali – ricorda Amoretti – hanno attribuito o attribuiscono l’insurrezione delle Quattro giornate di fine settembre 1943 a un movimento spontaneo. Non è così perché io la sera del 27 settembre sapevo che la mattina dopo, 28 settembre, si sparava. C’erano gruppi antifascisti organizzati clandestinamente e a uno di questi partecipava anche mio padre. Insieme a dei cilentani come lui, si riuniva nello studio di Francesco Lanza, conosciuto come “il dentista comunista di via Foria”. Ma lì, come nel resto della città, non furono solo i comunisti a organizzare la Resistenza. C’erano anche liberali e cattolici. Parteciparono tutti, senza distinzione alcuna. Anche i preti hanno combattutto durante Le Quattro giornate. Un ruolo fondamentale, non mi stancherò mai di ricordarlo, lo ebbero le donne. Senza di loro non avremmo avuto quella rivolta».

Ideali e coraggio, altruismo e disperazione. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, tra rastrellamenti, fucilazioni e deportazioni in Germania, la Wehrmacht aveva distrutto il tessuto sociale ed economico della città e ridotto alla fame la popolazione.

«La Resistenza è nata da queste cose. Allora ero un ragazzino-partigiano – racconta Amoretti – ma non ero il più giovane. In quei giorni, a Napoli combattevano anche bambini di nove anni come Vincenzo Leone che in seguito divenne poeta di strada. Sono cresciuto in un ambiente, a partire da mio padre, che si era sempre opposto alla violenza fascista, alla sua camorra, e agli studenti racconto i fatti che ho visto e che ho vissuto».

Oggi il pericolo fascista, come testimonia anche l’ultima relazione dei servizi segreti al Parlamento, è ancora bene presente, a partire dai social. «Va arginato con la cultura», risponde Allegretti. «Per questo vado sempre a parlare nelle scuole. Da anni è diventato il mio “lavoro”, lo chiamo così ma naturalmente è un’iniziativa volontaria. Ho continuato con la parola la mia attività da partigiano per difendere la Costituzione, con le unghie e con i denti. Perché va lasciata così com’è, senza nessun cambiamento».

«Sembra strano – osserva – ma finanche tra i ragazzini ho sempre colto tanta voglia di ascoltare. Seguendo il consiglio di un grande italiano, Giorgio Amendola, grande oratore, del quale mi definisco un discepolo, racconto loro quelli che definisco “fatterelli”, episodi che mi sono accaduti. Non per parlare della mia vita ma perché, proprio attraverso queste piccole storie, questi episodi in cui sono stato coinvolto o dei quali sono stato testimone, loro possono farsi un’idea. Ad esempio, di come si vive durante il fascismo».

«Prima della “novantinite”, così il medico definisce i miei acciacchi, quando la vista era migliore, se la facevo troppo lunga mi accorgevo che coi loro sguardi i ragazzi si chiedevano: «ma ‘stu viecchio quann’ ‘a fernisce?». Oggi che non ci vedo bene uso l’esperienza e il buon senso per non diventare prolisso. Noi vecchi facilmente lo diventiamo».